Soffrire per malattia grave e lutto non è patologico
Approvazione della legge 38/2010 ed elementi dell’approccio palliativo
Le più recenti ricerche intorno a fine-vita e problemi bioetici annessi evidenziano che il desiderio di morte che caratterizza il dolore totale di molte patologie terminali può essere gestito e ridotto grazie alla palliazione. Tale tipo di cura, infatti, volta non al ripristino della salute ma alla riduzione dell’intollerabilità del dolore, permette di restituire, in misura diversa a seconda della patologia e del suo stadio, una qual forma di “benessere” al sofferente. L’eliminazione o la riduzione dell’insostenibilità del dolore riduce altresì la volontà di porre termine alla vita e dunque le richieste di eutanasia.
Fortemente voluta da coloro che lavorano a diretto contatto con il morente e con i suoi famigliari, da meno di un anno è stata approvata la legge 38/2010 sulla terapia del dolore e la palliazione. Si tratta dell’esito di un lungo ma anche irresistibile processo di costruzione bottom-up in cui il Legislatore ha saputo da ultimo essere espressione finale di una convalida sociale ampiamente confermata dalla prassi. In effetti la legge è stata capace di non snaturare la matrice di fondo che da anni guida il lavoro di cura, accompagnamento e assistenza del malato terminale, ovvero l’approccio delle medical humanities. Per l’Italia di tratta di un cambiamento importante, in quanto il nostro risulta essere uno tra i Paesi più arretrati in Occidente rispetto alla gestione del dolore e, per siffatta ragione, questo traguardo può essere considerato quasi una rivoluzione. L’abbandono della logica paternalistica, infatti, che impone un rapporto di autorità tra specialista-curante e ammalato-ignorante è stato abbandonato in questo campo a favore del paradigma palliativista, il quale risponde al riconoscimento in campo medico della centralità della persona. Tale aspetto introduce dunque nella medicina moderna un campo di riflessioni fino a ora lasciato fuori dal suo dominio di interessi, ovvero la questione relativa all’ulteriorità del soggetto rispetto al proprio essere corpo-macchina e alle sue disgregazioni. Da questa importante evoluzione prendono origine, per un verso, la necessità che i caregivers professionali acquisiscano competenze, oltre che mediche, specialmente filosofiche e psicologiche e, per l’altro, che la presa in carico del malato sia affidata a una rete di operatori che sappiano cooperare e lavorare confrontandosi a livello interdisciplinare.
Uno dei punti cardine della cura centrata sul paziente riguarda la sofferenza che accompagna il dolore, nel cui alveo confluisce con funzione primaria, sebbene inscindibilmente legata a quella somatica, la dimensione psicologica, al cui interno si inscrivono i processi di significazione relativi al rapporto vita-malattia-morte. In tale circuito è essenziale la presa in carico degli aspetti affettivo-relazionali, insieme a quelli che spalancano le cateratte dell’angoscia che la consapevolezza di dover morire e il suo compito evolutivo comportano. Il processo di conclusione e chiusura dei rapporti interumani si annuncia, infatti, nella fase finale della vita del malato e di chi gli è caro, come una perdita subita piuttosto che agita o voluta, ma non per questo non elaborabile.
L’approccio delle medical humanities assunto dalle legge 38/2010 -partendo dal principio secondo cui è possibile trasformare il dolore in un’esperienza dotata di senso soltanto se la relazione di cura è in grado di accogliere l’interezza del paziente- stabilisce che è inevitabile per il sofferente e per coloro che appartengono alla sua rete relazionale affrontare il drammatico “compito” imposto dall’imminenza della morte, non solo rendendo questa fase sopportabile ma anche e specialmente riconoscendole l’importanza cruciale che le spetta, in quanto passaggio irreversibile che nella sua essenza rimane ancora sconosciuto e quasi assolutamente insondabile.
Per poter garantire questo alto livello di intervento, il Legislatore ha dunque previsto: la predisposizione di reti di intervento composte da team si professionisti che operano a livello interdisciplinare; l’integrazione tra assistenza domiciliare, ospedaliera e di hospice; una formazione specialistica universitaria, post-universitaria e permanente destinata a chi lavora nel team; il riconoscimento della professionalità acquisita; la misurazione dell’efficacia degli interventi nonché la possibilità di modificarli e implementarli grazie alla ricerca scientifica.
Discutere il cambiamento: Gruppo di lavoro voluto dall’Ordine degli Psicologi del Veneto e dal Master Death Studies & the End of Life
Di questo problema si sta già cominciando a parlare, per l’area psicologica, all’interno di un gruppo di lavoro voluto dall’Ordine degli Psicologi del Veneto, in accordo con l’Università di Padova e in particolare con il Master Death Studies & the End of Life: Studi sulla morte e il morire per il sostegno e l’accompagnamento. Tale Gruppo è stato finalizzato alla definizione dei possibili ruoli e funzioni che lo Psicologo può assumere all’interno del team o indipendentemente da esso (in quanto libero professionista in grado di garantire una consulenza adeguata). Infatti, rispetto alla rete di intervento prevista, specialmente gli psicologi, insieme agli ineludibili medici e infermieri, pare debbano assumere una posizione centrale. Ma proprio per questa rilevanza non è possibile eludere alcuni problemi importanti che sono peraltro già emersi e sui quali questa categoria di professionisti è chiamata a confrontarsi. Ricordiamo, per esempio, che la competenza psicologica richiesta non si estingue nei saperi psico-oncologici, poiché la terminalità, intesa come periodo prolungato di malattia inguaribile che porta alla morte, interessa molte altre patologie, mentre il lavoro psico-oncologico fino a ora ha garantito il proprio successo facendo leva sulle strategie di coping che aumentano le capacità reattive del malato puntando sull’ottimismo della guarigione piuttosto che sul pessimismo dell’ineluttabilità. L’intervento palliativo purtroppo non può prescindere dall’assunzione del pensiero di morte e dall’elaborazione psicologica del lutto anticipatorio, nonché infine della perdita irreversibile con cui devono fare i conti sia il morente sia i famigliari. Questo significa che l’empowering richiede nuove categorie di fondazione rispetto alla gestione cognitivo-affettiva della malattia e del suo preannunciarsi vettore di morte inevitabile.
Rispetto a ciò, pare che la consulenza religiosa, a detta proprio delle ricerche in campo psicologico, sia più efficace di quella psicologica. In alcuni casi, gli psicologi -i quali fin dall’origine del loro riconoscimento scientifico e sociale assumono un atteggiamento positivo rispetto alla conoscenza dell’umano e non certamente fideista- cominciano dunque ad assumere argomentazioni di tipo mistico/religioso per lenire il tormento esistenziale di chi si trova a fronteggiare il confine ultimo della vita. Questo intervento è giustificato pragmaticamente dall’obiettivo perseguito. Ma la questione non è indifferente, perché questi “teologi ingenui” per non dire semplicemente improvvisati “usano” il concetto di Dio con funzione palliativa per la dimensione psicologica. La giustificazione utilitarista è ovviamente quella del fine che giustifica i mezzi e non ci sarebbe alcunché da obiettare se non si trattasse del concetto più grande e difficile rispetto al quale l’umanità si è rivolta durante tutta la propria storia per dare senso alla propria esistenza e a quella di ogni individuo. Da questo punto di vista, qualsiasi volontà d’uso non può che risultare vuota retorica o imbroglio rispetto a chi invece fa sul serio. Ma chi più del malato pensa seriamente a che cosa ne sarà della sua persona dopo il passaggio?
Da questo punto di vista, potrebbe sembrare che dunque gli unici veramente titolati ad accompagnare il morente e i suoi famigliari al grande distacco non possano essere che i religiosi e i consulenti abilitati a discutere intorno all’anima e ai suoi destini, per aiutare coloro che “finiscono” a vedere oltre il muro da saltare, immaginando che cosa ci sia dall’altra parte e facendo in modo che questo salto assomigli il più possibile a quei tanti distacchi e cambiamenti che sono appartenuti alla vita già vissuta. Nessuna obiezione se fossimo certi che questo è indubitabile. Purtroppo il grande concetto di Dio, e mi riferisco al più grande ovvero quello pensato dalla Metafisica (il più grande in quanto determinato dalla volontà di pensarlo in termini di verità incontrovertibile e giammai come semplice contenuto di illusioni mitologiche) è infatti anche quello più confutato dal Novecento in poi. Questo significa che ogni volontà di rassicurare l’altro attraverso l’uso ingenuo o, al contrario, la disposizione di argomentazioni competenti che concernono Dio non può che essere risultato –dice inclemente proprio la psicologia– di istanze narcisistiche individuali o di “bias al servizio del Sé” o, peggio del peggio, di dinamiche di potere sociale orientate –in questo caso è il biodiritto a denunciare la cosa– a gestire le politiche dei corpi a vantaggio di supremazie ideologiche precise.
Riflessione finale sulla patologizzazione del lutto
Storicamente la psicologia nasce quando si è cominciato a dire che Dio era morto come pure l’anima che doveva raggiungerlo dopo la morte del corpo. Purtroppo di tutti questi temi gli psicologi sanno davvero poco e quel che conoscono è il risultato di una passione personale. Ma sappiamo benissimo, proprio grazie alla psicologia, che la volontà di tranquillizzare l’altro con le nostre personali credenze è soltanto la proiezione nell’altro del proprio desiderio di rassicurare se stessi. Purtroppo gli psicologi non hanno alcuna competenza teologica e ancora meno filosofica per poter gestire in modo corretto categorie relative alla trascendenza. Ecco dunque, a conclusione di questo intervento, che risulta imprescindibile porsi alcune questioni.
La prima consiste nel chiedersi se sia intellettualmente e umanamente onesto che i contenuti religiosi vengano utilizzati dallo psicologo con funzione palliativa. Se ci pensiamo bene, infatti, l’“uso” del nome di Dio è sempre una “bestemmia”, anche se molti politici e religiosi contemporanei, assai interessati alla questione politica, e la stessa storia ci hanno abituato a credere il contrario. Ma torniamo alla specificità del problema psicologico rispetto alla possibile gestione di quella dimensione che la letteratura psicologica chiama “spiritualità”. I secoli di discussione filosofica e teologica sulla questione dell’ulteriorità dimostrano che la “buona fede” dettata dall’ignoranza è una sostanziale “malafede”, perché consiste nella denigrazione di ciò che più conta per l’uomo. Nessuno si azzarderebbe, facciamo un esempio paradossale, a presentarsi dinanzi a una commissione che seleziona tecnici per la produzione di energia nucleare dicendo di essere competente in fisica qualora questo non fosse vero. È forse più importante la fisica, per lo psicologo che affronta temi religiosi, che Dio? È forse più importante una commissione esaminatrice di un morente e dei suoi famigliari? Se la risposta è positiva, lo psicologo ha sbagliato lavoro. Se invece è negativa, deve sapere che non può fare un intervento che riguardi la spiritualità perché non ha la formazione che per esempio la laurea in filosofia richiede. Una gestione personalistica del tema religioso non denuncia altro da parte dello psicologo che il fallimento del suo intervento in quanto psicologo. Se altresì il paziente non crede affatto in Dio, questo tipo di consulenza incorre nel rischio che la sua buona fede non si risolva in altro che in una violenza nei confronti di chi vive il proprio finire, in quanto messo nella condizione di “sopportare, tanto che vale?”. Questo tipo di intervento psicologico è solo inconsapevole (per ignoranza) collusione con le istanze sociali che pretendono che dinanzi alla morte tutti operino una qualche forma di conversione per garantire che venga mantenuto il potere di chi amministra le religioni istituzionali. Non è forse questo il modo migliore per dichiarare che la morte è proprio la fine della soggettività e dunque della volontà di esser sé che si annuncia come autodeterminazione, la quale però può esser tale solo quando si ha la forza di imporsi su chi vorrebbe usare la nostra presenza? Per evitare questi rischi, non sarebbe meglio prevedere innanzitutto una buona e competente “consulenza filosofica” parallela e pari a quella psicologica? La consulenza filosofica è proprio quella pratica che sa riaccendere i percorsi di ricerca di significato attraverso la relazione. Essa nasce come “maieutica” rivolta a quel sapere che caratterizza da sempre l’uomo: il sapere di dover morire. Il linguaggio della filosofia, su cui ogni religione ormai cerca di trovare il proprio fondamento per non essere solo mitologia (dunque discorso volutamente illusorio e per ciò stesso meramente palliativo), è la costante riflessione dell’uomo sul senso del vivere sapendo di dover morire. Gli psicologi queste cose non le sanno, perché nei loro corsi di studio si insegna ad abbandonare la filosofia e a ignorare totalmente il rapporto di dipendenza che la religione intrattiene con essa. Agli psicologi vengono spiegati i meccanismi del pensiero, non che cosa significhi “pensare” e ancora meno viene illustrato l’universo del “morire”. Ma la legge 38/2010 non attribuisce alcun valore ai filosofi.
Siamo dunque evidentemente davanti a gravi contraddizioni rispetto alla gestione del concetto di “persona” nell’intervento di accompagnamento verso la fine. E queste contraddizioni si manifestano conclusivamente in un ulteriore grande rischio. Vediamolo per punti.
Nella cultura occidentale il lutto è sempre stato vissuto come momento comunitario in cui condividere il cordoglio, attraverso pratiche sociali che offrissero l’occasione di condividere il senso dell’esperienza del limite. Da sempre l’uomo sa che la morte e la malattia sono causa di grande dolore e questo dolore muove la storia umana verso la riflessione sul senso della vita. Non è mai stato pensato –neppure Freud lo ha fatto, nonostante la sua visione pan-neurotica della sofferenza psichica– che fosse “psicopatologico” soffrire a causa della morte. La sofferenza in sé non è espressione di psicopatologia. Il fatto che lo psicologo, titolato a gestire l’accompagnamento, pur ignorando totalmente in termini di competenza scientifica (ovvero rigorosamente sistematica) i contenuti della filosofia e della religione, spesso si risolva a suggerire al morente e ai dolenti letture di testi sacri –quelli che personalmente piacciono a lui– oppure a pregare per rivolgersi al Dio in cui credono oppure a utilizzare pratiche esoteriche o “orientaleggianti” dimostra proprio questo: lo psicologo sa che i suoi saperi sono assolutamente insufficienti per gestire l’esperienza del morire.
In questa fase, in Parlamento si sta lavorando per la discussione dei decreti attuativi, che saranno quelli che renderanno operazionalizzabile la legge 38/2010. Si tratta di un momento molto delicato, perché non viene aperta la discussione a livello pubblico. Per evitare che gli psicologi siano tacciati di “ignoranza”, è probabile che venga richiesto che coloro che dovranno gestire l’accompagnamento siano “psicoterapeuti” ovvero abbiano acquisito il grado più alto di competenza rispetto all’intervento clinico.
Ergo: poiché gli psicologi non sanno quasi niente di che cosa significhi “morire” e poiché la Legge vuole invece garantire il livello più elevato di competenza rispetto alla gestione di questo problema, se passa l’idea “rimediale” secondo cui solo gli psicoterapeuti saranno titolati a gestire l’accompagnamento, coloro che soffrono per l’esperienza del morire, verranno considerati “psicologicamente disturbati”, “disabili mentali”… matti da curare. Certamente il considerare la sofferenza portata dalla morte come una malattia mentale è certo una novità culturale importante nella storia umana.
È evidente che si tratta di un paradosso grave.
Ma che cosa stanno facendo i filosofi e gli psicologi per affrontate il problema? Molto poco per non dire quasi niente. Eccomi dunque, in quanto psicologa e filosofa, a tentar di accendere la miccia, proponendo di organizzare convegni di risonanza sociale importante, affinché la questione venga presa sul serio. Ma forse è già troppo tardi, perché nelle stanze dei bottoni, quelli che vogliono amministrare le politiche dei corpi sanno come lavorare nascostamente per produrre risultati che appaiono indiscutibili in quanto fanno leva sull’ignoranza.
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