N.8, febbraio 2011 – Sulla fine
Qual è la giusta prospettiva attraverso cui intendere l’evento più tragico e insieme naturale che ci contraddistingue e che al contempo rimane il più estraneo?
La consapevolezza di esser-per-la-morte non è scontata e non è vissuta in modo costante e presente. Sfugge volontariamente dal nostro palcoscenico quotidiano per consentirci di assaporare la vita come fosse eterna e di compiere scelte eterne. A volte l’intuizione del “proprio io, proprio a me” giunge inaspettata. Ci liberiamo dall’angoscia che genera -da questa paura senza oggetto, perché di fronte ha l’abisso dell’ignoto- con un deciso atto di coscienza: “non ora, non adesso, dunque non io, non a me”. Un sillogismo sul quale ci culliamo, come bambini tra le braccia di questa vita che anche quando odiamo continuiamo ad amare in un attaccamento che è una vera dipendenza disperante. Lo strappo e la lacerazione, che genera il sapersi condannati per malattia o la coscienza che chi ci è caro ha un destino segnato, portano con sé il ticchettio martellante del conto alla rovescia, che si vorrebbe fermare, o l’immagine orrrorifica del plotone di esecuzione pronto a mirare e a sparare, che si vorrebbe implorare. E l’oltre che attende, vuoto o pieno di essere? Ha un senso parlarne? Ha un senso pensare che si possa indagare e persino definire? Ha un senso affidarci a chi è più specialista di altri, come se fosse un’esperienza ripetibile o come se la risposta si potesse determinare sulla base del ragionamento o della riflessione? Quest’oltre è davvero oltre. Lo conosciamo soltanto dal punto di vista di chi rimane e che nell’aspetto di chi va si traduce in rigidità, in freddezza, in improvvisa restituzione alla memoria del volto, del calore del corpo vissuto, in presenza fisica decisamente privata di quell’io irriducibile che ben conoscevamo. Un momento topico in cui il “noi” si strappa e i morti diventano “loro”. E la barriera tra noi e loro si alza e da pellicola trasparente si fa muro di cemento.
S’impara a convivere con l’assenza in un percorso doloroso che è misura della fragilità della nostra umanità –non abituata all’impermanenza delle cose- e del bisogno di fisicità che l’amore porta con sé, pur essendo convinti di amare l’altro soltanto per la sua intangibile unicità. Quest’oltre di chi vive la morte dell’amato è un vagare nel deserto di risposte in un soliloquio senza fine che diviene legame disperante. E le oasi che come miraggi compaiono all’orizzonte sembrano dissetare per un momento, come quando sognando chi è andato par di averlo ancora lì con noi. Chi può aprire quest’intimo, interiore, costante soliloquio di nuovo alla vita? Coloro che regalano miraggi permettendo alla speranza di aver gioco sulla realtà inaccettabile? O chi accetta di camminare al suo fianco, consapevole del diritto di soffrire, consapevole dell’assenza di ogni certezza, fin tanto che l’altro non giunga egli stesso alla conclusione che l’oasi gli tocca costruirsela da sé, recintando un angolo nel suo personale mare di dolore che gli consenta di vivere e sorridere ancora? E dove si trova un compagno di tal sorta? Tra i sacerdoti, gli psicologi, i filosofi, gli amici? E coloro che sono consapevoli che la clessidra ha iniziato a far scivolare gli ultimi granelli, come si possono accompagnare sino al confine tra “noi” e “loro”?
È un numero di Vita pensata in cui la tematica trasversale non emerge soltanto ma viene affrontata con numerosi contributi, pur se molti altri articoli sono dedicati a temi e autori estranei all’argomento. Sempre che ci sia qualcuno o qualcosa estraneo alla morte.
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