Che cosa vuol dire morire
«Siamo così impreparati di fronte alla morte che l’unica risposta che la nostra cultura ipertecnologica sa offrirci è fingere che non esista. Ma è una scommessa: in pochi avranno la fortuna di varcare la porta a occhi chiusi, con passo leggero e svelto. E gli altri? Costruire una nuova cultura della morte, che non sia dominio esclusivo della medicina né rimozione di un evento inevitabile, è l’unica strada possibile. Di più: è un compito di cui essere all’altezza. Per questo è necessario che la filosofia scenda in campo e faccia la sua parte» (p. VIII). Sulla base di questa convinzione Daniela Monti ha avuto la buona idea di intervistare sul tema alcuni pensatori italiani contemporanei. Il quadro che si è andato delineando, per quanto ovviamente non esaustivo, costituisce indubbiamente una piattaforma preziosa per ulteriori indagini. Vi sono rappresentate, infatti, tre fra le posizioni più ricorrenti nella tradizione occidentale: lo scetticismo, lo spiritualismo, il panteismo.
Ovviamente le tre etichette (di cui mi assumo in esclusiva la responsabilità) sono approssimative come tutte le etichette. Con la prima mi riferisco a posizioni ‘scettiche’ nel significato etimologico originario di ricerca incessante, aperta, esposta strutturalmente alla critica: in questo senso mi permetto di includervi le tesi di Remo Bodei e di Roberta de Monticelli. Il primo, infatti, sostiene che «ogni volta che muore qualcuno, un intero mondo scompare e si perde per sempre. Io difendo quel mistero. Viviamo come ospiti grati che cercano di capire perché sono finiti in questo mondo e quanto durerà. Vivere con un margine di incertezza non toglie responsabilità alle nostre azioni, ma lascia aperta la porta al dubbio che le cose, alla fine, possano rivelarsi diverse da come le abbiamo pensate. È il contrario di fedi rigide, sia laiche che religiose, dentro le quali ci si mura per non avere paura» (p. 57). E ancora: «Quando si parla di ciò che accade dopo la morte, non si può dimostrare niente. Penso sia molto più probabile che tutto finisca qui: perché io dovrei avere dei privilegi rispetto a una rosa o a un cane? Ma dal lato sia intellettuale che emotivo, dal momento che io non so, lascio una porta aperta al mistero, non con l’idea di assicurarmi un posticino in Purgatorio, ma pensando che, in fondo, noi viviamo come degli automi miopi, nasciamo senza sapere perché, moriamo senza sapere perché, e nel breve arco della vita non riusciamo a farci delle convinzioni su queste cose perché sono troppo grandi per noi» (pp. 71–72). Non dissimili alcune affermazioni della de Monticelli: «Se proprio dovessi definirmi, mi dichiarerei in primo luogo costituzionalmente perplessa, professionalmente incapace di intrattenere credenze o opinioni per cui non abbia alcuna base di evidenza, e spiritualmente ‘non indifferente’ all’esperienza di valore di ciò che gli uomini chiamano il divino. In effetti, ho proposto di sostituire alla coppia credenti/non credenti che fa della spiritualità un insieme di credenze o opinioni, l’opposizione fra non-indifferenti e indifferenti: al valore che il divino rappresenta e all’esperienza di questo valore, qualunque sia il nome che ciascuno gli dà» (p. 88).
Non meno approssimativa dell’etichetta ‘scetticismo’ riesce la categoria ‘spiritualismo’ per indicare la posizione di Giovanni Reale e di Vito Mancuso. Il primo è un platonico che si riconosce pienamente cattolico; il secondo, un platonico che –pur restando nell’alveo della tradizione cattolica– ritiene irrinunciabili alcune revisioni della dottrina ‘ortodossa’. Scrive infatti Mancuso: «Noi siamo corpo, siamo psiche, siamo spirito. […] Vuol dire che l’uomo non ha solo una dimensione e che non si sa quale prevarrà il giorno della sua morte. Questa incertezza vale per tutti, credenti e non credenti, santi e peccatori, atei incalliti e cardinali. Se nell’ultima ora la dimensione del pneuma, cioè dello spirito, prevarrà sulla psiché e sul bios, non ci sarà paura e la morte potrà essere serena. Se invece è la vita biologica a prendere il sopravvento, la morte diventa terrore perché fa parte del normale istinto di ogni uomo il non voler morire. Paura o non paura: non c’è dunque una risposta, dipende da quale sfera prevarrà in quel momento. Ma occorre ricordare che tutte le grandi tradizioni spirituali conoscono, come uno dei momenti più alti, proprio la dimensione dell’imparare a morire. […] L’importante è comprendere una cosa: che la morte non è contrapposta alla vita. Averne una visione dualistica, come purtroppo è ancora molto spesso presente in ambito cristiano, è sbagliato. Quando io penso alla morte, la vedo come l’ultima pagina del libro della vita. […] La morte è qualcosa che necessariamente è compresa fin dall’inizio della nostra vita: non c’è libro che, avendo una prima pagina, non abbia anche un’ultima pagina» (pp. 123–126). Molto più in sintonia con il magistero della chiesa cattolica le tesi di Giovanni Reale: «I cristiani hanno un pensiero che si differenzia notevolmente da quello dei Greci, perché credono ben più che all’immortalità dell’anima, alla resurrezione finale dell’uomo con il corpo. La spiegazione della morte si connette quindi strettamente con la ‘pasqua’, ossia con la resurrezione. Per capire bene questa differenza basta pensare al significato del termine ‘pasqua’. I Greci hanno connesso il termine con paschein che significa patire e hanno legato la pasqua con la passione. In ebraico, invece, pasqua significa ‘passaggio’ e si connette con il passaggio degli Ebrei attraverso il Mar Rosso, ossia con la liberazione del popolo ebraico dalla schiavitù degli Egizi; i cristiani intendono questo ‘passaggio’ come la liberazione attraverso la passione di Cristo (il sangue di Cristo simboleggiato dal rosso del Mar Rosso) dalla schiavitù del peccato. Ecco, nel cristianesimo i due significati si legano strettamente fra di loro: quello della morte di Cristo nella passione e quello della sua resurrezione. E dunque la morte viene a essere un passaggio, attraverso un non-essere-più-ciò-che-si-era, a una nuova forma di essere» (pp. 26 – 27).
Questo ‘passaggio’ è un divenire reale, ontologico, o soltanto un’apparenza, un’illusione? Per i panteisti di ogni tempo, la nascita e la morte sono poco meno che increspature dell’immensa superficie dell’essere: incidono ‘in assoluto’ -nell’Assoluto- quanto il formarsi e il disfarsi delle onde incide nella consistenza e nella permanenza dell’oceano. Di questa terza prospettiva è testimone-profeta Emanuele Severino: «la morte non è annientamento. Nell’eterno apparire del tutto, in cui l’uomo consiste, la morte è il passaggio da uno spettacolo dove gli eterni costituiscono ciò che noi chiamiamo ‘vita’ allo spettacolo degli eterni che oltrepassano l’alienazione del vivere. Ognuno di noi è l’apparire della verità. […] Il senso autentico della morte è la negazione di quel gigantesco evento che apre la storia dell’Occidente e che consiste nella fede che le cose vadano nel nulla. Il senso autentico della verità, non il mio modo di pensare, è la negazione che una qualsiasi cosa -non solo le cose importanti ma anche il granello di polvere, il pelo della barba, questo nostro istante e quelli che lo hanno preceduto e quelli che seguiranno e qualsiasi nostra esperienza e qualsiasi stratificazione della storia– sia nulla. Non c’è alcunché che vada nel nulla. Pensare un tempo in cui gli enti non sono significa trovarsi nella contraddizione più radicale e radicata, più nascosta, e che tuttavia guida ormai l’intero Pianeta. Ciò che per l’Occidente è la suprema evidenza, è la suprema Follia. […] Siamo re che si credono mendicanti – prede del nulla. Quindi mendichiamo la salvezza dal nulla presso un Dio, o presso la Tecnica. E non sappiamo di essere re. Essere re vuol dire: siamo l’eterno apparire dell’eternità di tute le cose. Ognuno di noi è questa dimensione che è più che esser Dio: ognuno di noi, che crede di essere mendicante, è (e in quanto mendicante non lo sa) l’eterno apparire dell’eternità di tutte le cose» (pp. 151–156).
Le cinque ‘interviste’ che abbiamo, a volo d’uccello, evocato sono precedute da una conversazione della curatrice del volume con Aldo Schiavone il quale, da buon storicista, sa schivare magistralmente le domande più dirette (“Che cosa vuol dire morire?” “Lei ha paura della morte? E, d’altro canto, l’immortalità è desiderabile?”) e preferisce indagare le trasformazioni epocali in cui siamo coinvolti: «l’uomo, grazie alla potenza della tecnica di cui dispone, sta prendendo il controllo della sua forma biologica. Quello che è stato sino a oggi un presupposto immutabile della storia umana (le sue basi ‘naturali’), si sta trasformando sempre di più in un risultato delle nostre azioni e delle nostre scelte. Noi saremo, biologicamente, sempre di più ‘come vorremmo essere’: sta finendo la nostra ‘preistoria’. L’umano si sta appropriando finalmente del suo destino» (p. 5). In questa prospettiva storico-sociale, Schiavone –che «non è credente» (p. 4)- si confronta con le posizioni di bioetica della chiesa cattolica. Da una parte sostiene che «l’affermazione che la vita sia un bene di cui non possiamo totalmente disporre può essere sostenuta anche nella prospettiva di un non credente. Si può pensare che essa esprima un valore e una potenzialità sociali di significato talmente alti, da non poter essere affidati, in particolari circostanze, unicamente a chi quella vita la vive» (pp. 13–14); dall’altra parte, egli non si mostra ottimista circa la possibilità di una convergenza con le gerarchie cattoliche: «la bandiera da difendere per i cattolici è adesso l’idea della sacralità della vita, nella forma data che è sotto i nostri occhi – un principio che mai la Chiesa aveva sostenuto con tanta intransigenza, visto che non aveva esitato in passato a far comminare la morte (dal proprio ‘braccio secolare’). Ma Dio non è a ridosso della forma attuale della specie, come non è in una particolare modalità dell’universo. La religione è altro: è amore. Tutto il resto è marginale. Dio è amore. Una religione che sappia riscoprire la forza del messaggio evangelico, la straordinaria potenza di questo annuncio, può rinunciare a esercitare il controllo esclusivo sull’ingresso e sull’uscita della vita – può rinunciare a esercitare questo potere, e tuttavia restare qualcosa di forte, di determinante. Ma per questa svolta ci vuole una nuova stagione di profetismo» (p. 12).
Indubbiamente il volume sarebbe stato più completo se fosse stato integrato da altri punti di vista (ad esempio quello schiettamente materialistico o quello ebraico di cui molti pensatori protestanti si fanno riproposi tori), ma così com’è si impone, mi pare, come un riferimento obbligatorio nel dibattito sull’argomento.
R. Bodei, E. De Monticelli, V. Mancuso, G. Reale, A. Schiavone, E. Severino |
Che cosa vuol dire morire |
A cura di D. Monti |
Einaudi, Torino 2010, |
Pagine 171 |
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