Albert Schweitzer e la crisi della civiltà

Di: Ivana Randazzo
4 Febbraio 2011

Albert Schweitzer (1875-1965) è stato uno dei più acuti interpreti della crisi della civiltà contemporanea. Medico, missionario, filosofo, musicista e profondo uomo di fede, dedicò tutta la sua vita a trovare una ‘cura’ alla malattia che aveva colpito l’intera umanità, non rassegnandosi mai alla triste e difficile situazione in cui l’uomo moderno si trovava a vivere, specialmente nel periodo successivo alle due Guerre mondiali.
Obiettivo di Schweitzer non era tanto la semplice analisi della povertà spirituale in cui si trovava l’epoca odierna quanto di trovare una possibile soluzione costruttiva, in grado di arginare il profondo stato di declino in cui viveva la società umana.
Nella visione di Schweitzer il proliferare delle invenzioni e dei saperi del ventesimo secolo non era accompagnato, come invece si aveva la presunzione di sostenere, da un’altrettanto grande levatura spirituale ed etica: «Io invece avevo avuto l’impressione che, lungi dall’aver superato le generazioni passate nel livello spirituale, stessimo vivendo sulle loro conquiste… e addirittura cominciassimo a dilapidare molto di questo patrimonio»1.

L’uomo moderno, secondo l’interpretazione di Schweitzer, era diventato semplice spettatore degli eventi, sembrava aver perduto ogni capacità di riflessione e si era affidato a organizzazioni (politiche e religiose) che avevano finito per assoggettarlo, senza che egli ne avesse più consapevolezza. Troppo distratto dall’occupazione quotidiana, l’individuo non sentiva più l’esigenza di interrogarsi sulla propria esistenza e sulla verità, si affidava alla propaganda che si era andata sempre più perfezionando, perdendo ogni fiducia nelle proprie capacità razionali. Ci si convinse che esistevano opinioni già stabilite da partiti e nazioni, che i fattori ambientali non si potessero cambiare, che tutto si fosse standardizzato. Il soggetto sembrava aver abbandonato le proprie idee personali e la dimensione creativa: «Lo spirito di soggezione spirituale, a cui dovrebbe arrendersi, è in tutto ciò che egli ascolta e legge; è negli uomini con cui viene in contatto; è nei partiti e nelle associazioni che lo hanno sequestrato; è nelle condizioni in cui vive. Da ogni lato e nei modi più svariati si agisce su di lui affinché prenda le verità e le convinzioni di cui ha bisogno per vivere dalle associazioni che su di lui vantano diritti»2.
La completa immersione nel proprio lavoro conduceva al bisogno di distrazione, la fatica lavorativa spingeva a dedicarsi, nel tempo libero, alla lettura di libri di svago piuttosto che a quelli istruttivi, al teatro si preferivano i locali di divertimento, persino alla conversazione con gli amici si anteponevano l’ozio e tutte le attività che non richiedevano sforzi mentali: «Quando lo spirito della superficialità è penetrato nelle istituzioni che dovrebbero sorreggere la vita spirituale, queste agiscono sulla società e la portano a uno stato di vuoto mentale»3. La crescente produzione lavorativa e la crescente specializzazione dei saperi condusse dunque alla perdita spirituale e individuale del singolo uomo.
La stessa filosofia che, per Schweitzer, doveva essere il guardiano della ragione era così occupata nel corso del diciannovesimo e ventesimo secolo a studiare lo sviluppo delle scienze e la loro origine e storia (convinta che sviluppo significasse progresso), che non si interrogò più sul mondo e sulla vita e non aiutò più l’umanità a crearsi una propria Weltanschauung : «La filosofia filosofò così poco sulla civiltà che non s’accorse che lei stessa e con essa l’epoca sua si svuotavano sempre più di civiltà. Nell’ora del pericolo il guardiano che avrebbe dovuto tenerci svegli dormiva, cosicché noi non opponemmo resistenza alcuna»4.

La consapevolezza di Schweitzer, uomo acuto e riflessivo, di vivere in un periodo di declino spirituale non gli fece tuttavia perdere la fiducia e l’ottimismo. Seguendo l’insegnamento kantiano, in linea con i più alti ideali illuministici, sentì l’esigenza di riaffermare il valore della libertà e della ragione umana: «Mi ero convinto che il progresso dell’umanità sarebbe stato possibile soltanto se il razionale avesse preso il posto delle opinioni vaghe e della rinunzia a pensare»5. Egli affermava che il progresso tecnologico e materiale dovesse essere accompagnato da quello spirituale, dalla riaffermazione degli ideali etici della civiltà; perché soltanto se l’uomo torna ad avere rispetto per la vita e a riflettere su di essa e sul mondo, potrà godere dei frutti del progresso.
Secondo Schweitzer è necessario il recupero di una dimensione etica della vita e del mondo intero, fondata sul pensiero e sulla riflessione. L’individuo deve tornare a essere artefice consapevole delle proprie azioni, soltanto se la vita «si interiorizza e diviene etica, la volontà di progresso che ne deriva possiede la capacità di distinguere fra valido e meno valido mirando a creare una civiltà che, lungi dall’essere formata esclusivamente da conquiste del sapere e della tecnica, è soprattutto rivolta all’ascesa spirituale ed etica dell’uomo e dell’umanità»6.
Alla mancanza di libertà, all’incapacità di raccoglimento interiore, alla pochezza morale e spirituale, all’eccessiva organizzazione della società che caratterizzano la tragica situazione del tempo, Schweitzer risponde con una chiara e manifesta speranza nelle capacità razionali dell’uomo, offrendo così un messaggio di grande attualità per tutte le generazioni. Egli auspica il ritorno a una filosofia elementare, accessibile a tutti e al servizio di tutti7.

NOTE

1 A. Schweitzer, La mia vita e il mio pensiero (Aus meinem Leben und Denken, Felix Meiner, Lipsia 1931), Edizioni di Comunità, Milano 1965, p. 133.

2 Ivi, p. 200.
3 Id., Agonia della civiltà (Verfall und Wiederaufbau der Kultur, in Id., Kulturphilosophie, Beck, München 1923), Edizioni di Comunità, Milano 1963, p. 30.
4 Ivi, p. 26.
5 Id., Infanzia e giovinezza (Aus meiner Kindheit und Jugendzeit, Gute Schriften, Berna 1924), Mursia, Milano 1982, p. 69.
6 Id., La mia vita e il mio pensiero, cit., p. 138.
7 Nel 1952 gli venne conferito il Premio Nobel per la Pace.

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