Sulla consulenza filosofica (II parte)

Di: Andrea Ferroni
3 Dicembre 2010

(Continua dalla I parte)

PARS COSTRUENS

(in cui è implicita una pars destruens)

Definizioni tra possibili definizioni

La consulenza filosofica è un dialogo che avviene tra un filosofo e un’altra persona, che, di norma, chiede di essere aiutata a risolvere una situazione problematica della sua vita.
Il filosofo è, orientativamente, colui che ha una posizione di ricerca consapevole, aperta e continua su di sé e sul mondo, avendo alle spalle, come bagaglio, lo studio e la pratica della filosofia. Il filosofo che offre una consulenza si impegna in un dialogo con il consultante senza impiegare una tecnica o un metodo prestabiliti, né avendo risposte da dare in base a conoscenze certe o universali. Quindi, diciamo subito che il consulente filosofico non può propriamente aiutare nessuno1 e tantomeno offrire terapie in senso farmacologico o psicoterapeutico. Ma se è vero che non può offrire quelle forme di terapia è altrettanto vero che è comunque, costituzionalmente, orientato alla cura di sé e, quindi, in questo senso anche alla cura degli altri2. In questo cammino, che a volte condivide con chi glielo chiede, il filosofo ha dalla sua 2500 anni di pratiche e pensiero filosofici e, naturalmente, la sua personale esperienza di vita.

A che scopo? E per chi?

Si va dunque a consulto da un filosofo e si comincia un dialogo che si fonda esclusivamente sul dialogo stesso: uno scambio di parole appassionato, autentico, attento, critico, problematizzante, profondo e rispettoso che crea spesso una scintilla euristica e virtuosa. Per usare una metafora ricorrente in Platone, si potrebbe parlare di un fuoco (il fuoco del logos) che riscalda i due3 dialoganti, ravvivandoli intimamente. Che in consulenza ci si ravvivi è mia esperienza diretta, ma non so individuare i motivi: forse perché ognuno, grazie all’altro, si porta più vicino alla sua verità o a una ulteriore e più completa verità o forse perché ragionare appassiona e diverte. O forse perché, come dice Poma, «porre e dibattere i problemi in modo radicale, ampio e articolato, esplicitando e mettendo a frutto tutte le potenzialità del problema stesso» (pag.44) è già un modo di relativizzare la questione del consultante4 o di trasformare un problema in una risorsa. In ogni caso, quale che sia il punto d’arrivo, l’argomento di partenza del dialogo è sempre la problematica concreta del consultante. Il dialogo con un filosofo dovrebbe dunque allargare gli orizzonti, ampliare le prospettive, far scoprire e capire qualcosa di nuovo e inaspettato, rendere possibile l’apertura a una ricerca consapevole di sé, chiarificare e rivelare le idee che guidano l’esistenza quotidiana.

Può accadere, per tutti i motivi addotti, che le problematiche iniziali del consultante, trovandosi in una dimensione diversa dal contesto consueto, si risolvano, come per una sorta di effetto collaterale: un’eventualità magari auspicabile ma non una finalità della consulenza filosofica che, da questo punto di vista, si configura dunque come un “fare filosofia insieme” (incidentalmente euristico e risolutivo) anziché come una relazione specificamente d’aiuto. Aggiungo due considerazioni che ho potuto trarre grazie a Marc Sautet e Shlomit Schuster. Sautet ha posto l’accento sul fatto che l’assenza della riflessione filosofica per un essere umano può essere disastrosa: si tratterebbe di una grave rimozione perchè l’intelletto umano ha sete dell’intero e non solo di aspetti settoriali (come quelli, ad esempio, indagati dalle psicoterapie). La Schuster parla invece dell’importanza della filosofia per conoscersi: dal momento che la nostra civiltà è strutturata storicamente sulla filosofia, la tendenza contemporanea ad escluderla dalla vita comporti un rischio di alienazione dalla comprensione della vita stessa e della storia5.

Per chi è la consulenza filosofica? Questione semplice: per tutti. O meglio: per chiunque sia capace di dialogare articolando discorsi e ragionamenti all’interno di nessi logici sensati e generalmente condivisi, che rispettino il principio di identità e non contraddizione. Nel caso di psicopatologie o follie primarie è ugualmente possibile ricevere dei consultanti purché questi ultimi, rispettando la condizione precedente, effettuino anche un percorso psicoterapeutico o psichiatrico.

La filosofia non è scienza e lo sa. La psicologia non è scienza e non lo sa. La scienza è filosofia.

Si pone ora la questione della differenza tra la consulenza filosofica e quella psicologica. Si apre cioè un capitolo che andrebbe trattato in modi e tempi diversi rispetto al sunto che qui ne faccio. Preciso poi che tale differenza si riferisce esclusivamente al mio modo di intendere la consulenza filosofica, che dipende in larga misura dalla mia personale visione del mondo. Va poi detto che la distinzione più ovvia è che la consulenza psicologica si occupa della psicopatologia mentre la consulenza filosofica della normalità6. Cito inoltre Umberto Galimberti perché, pur non riferendosi a tutte le pratiche psicoterapeutiche, ritengo molto chiara e utile la sua distinzione tra la Psicoanalisi che, nel mondo contemporaneo dominato dalla tecnica, resta utile soltanto per la comprensione delle dinamiche emotivo-relazionali e per i processi di simbolizzazione, ma non per l’insensatezza tout court: essa -dice Galimberti- «conosce il non-senso di una vita tormentata dalla sofferenza, ma non la sofferenza determinata dall’irreperibilità di un senso»7. Occorre allora la pratica filosofica. Infatti «fin dal suo sorgere la filosofia si è applicata alla ricerca di senso» e «non ha mai esitato a mettere in questione il mondo»8. Venendo al punto che mi interessa, direi, in estrema sintesi, che la psicoterapia9 da qualche tempo si sta ponendo sempre più in discussione circa i suoi possibili obiettivi scientifici e sulla possibilità stessa di terapia. È già una prima vicinanza con la consulenza filosofica, dunque, che, come già detto, si pone completamente al di fuori dell’obiettivo terapeutico. Si potrebbe dire allora che, avvicinandosi gli scopi, la filosofia si differenzi per consapevolezza. Il filosofo sa che il mondo in sé non esiste o che è quantomeno problematico esserne certi, sa che una verità oggettiva cui appigliarsi non esiste, il filosofo sa che esiste solo un universo di significati possibili da dare al mondo.

Nietzsche, per citare un fondamento del mondo contemporaneo, aveva già chiaramente espresso il concetto che i fatti (e quindi anche i fatti della psicologia, anche i fatti di ogni scienza) non esistono, ma esistono solo le interpretazioni. La consulenza psicologica e la psicoterapia che non fossero avvedute di questo diventerebbero automaticamente un’imposizione al cliente, un plagio più o meno consapevole.

Se il mondo di ognuno dipende dai significati che ognuno decide di dargli, la psicologia, in quasi tutte le sue forme10, è solamente una prospettiva, una tra le possibili prospettive, la scelta di un significato tra i possibili significati da scegliere. Ogni psicologia è quindi, a rigore, una prospettiva arbitraria. Arbitraria, d’altra parte, lo è la scienza stessa (che pure ancora oggi è da molti vista come luogo e garanzia di verità assoluta) in quanto anch’essa è il risultato di una scelta di uno dei possibili significati mediante cui interpretare la realtà11.

La verità non è una e non è di proprietà di qualcuno. La verità è, casomai, l’ambito originario e sempre sfuggente entro cui le singole e molteplici verità si rivelano. Il compito di reperire la verità diventa dunque un compito ermeneutico. Il mondo pullula di risposte e di significati, che amano nascondersi. Sta a noi scoprirli ma, a mio avviso, ci sono almeno due condizioni che ora mi vengono in mente:

–             Tentare di abbandonare la presunzione di sapere già e il narcisismo individualista occidentale;

–             cercare di riscoprire la meraviglia e l’assurdità di stare al mondo.

Il primo punto credo sia necessario poiché presunzione e narcisismo, collegando idealmente Socrate e Freud, si pongono come ostacoli a qualsiasi ricerca ape

rta al dialogo, alla possibilità di ascolto e di cambiamento. Il secondo punto, collegando le origini della filosofia e il Novecento esistenzialista, potrebbe essere la condicio sine qua non del filosofare.

Ermeneutica, metodi e conclusioni

Se il mondo pullula di significati che amano nascondersi e sta a noi scoprirli, il compito che ci attende, come uomini e come consulenti filosofici, è un compito ermeneutico. L’ermeneutica dei significati (e il collegato tentativo di rendere consapevoli le proprie e le altrui precomprensioni) tende al disvelamento di orizzonti sempre più ampi. L’ermeneutica, da questo punto di vista, è la prospettiva filosofica contemporanea che affonda le sue radici nella maieutica socratica. La filosofia che sa di non sapere, quasi spontaneamente, interroga e si pone in ascolto. E poi dialoga, finché, tolti gli ostacoli del pregiudizio, si apre la via verso un orizzonte di verità ulteriore e condivisa12. Avviandomi alla conclusione, torno alla questione dei fondamenti e dei metodi della consulenza filosofica, riaffermando che non c’è e non ci può essere, a mio avviso, una base teorica o metodologica tale per cui la consulenza filosofica possa considerarsi una scienza o una dottrina, applicabile secondo uno standard (e quindi insegnabile13).

È la debolezza ma anche la forza della consulenza filosofica. Debolezza perché sarà sempre epistemologicamente attaccabile; forza perché sarà sempre fenomenologicamente attenta a comprendere l’esistenza senza avere la pretesa di spiegarla14. Il punto è che la consulenza filosofica è filosofia e come tale si manifesta solo facendola, la si impara solo praticandola.

La consulenza filosofica è un accadimento non un metodo. Il consulente ha solo un compito (che è anche una competenza): lasciare che la filosofia accada. Non deve quindi pensare prima a cosa dire o a come applicare un determinato contenuto filosofico alla situazione in quel momento presente nel suo studio. Altrimenti non farà filosofia ma, bene che vada, relazione d’aiuto o counselling a indirizzo filosofico. Tuttavia il discorso non è così semplice dal momento che ogni persona ha dei presupposti entro i quali conduce la sua vita, pensa, giudica e comunica e lo studio della filosofia lascia certamente delle tracce attraverso cui il filosofo pensa, giudica e comunica15.

Mi sembra comunque più opportuno, per concludere, ritornare al punto precedente: siamo in un universo di significati. L’uomo non ha una natura istintuale che abbia provveduto a fornirgli un percorso di vita più o meno stabilito. Egli non ha nemmeno il compito di trovare questo percorso, come se da qualche parte ci fosse la retta via da seguire. L’uomo deve invece inventarsi un percorso dal nulla: all’interno della foresta degli infiniti significati possibili della realtà deve reperire almeno un senso che, di volta in volta, vada bene per lui. E molte volte questo reperimento passa per l’ascolto. Spesso per il dialogo.

Il filosofo che fa consulenza filosofica ha la competenza di facilitare il percorso di reperimento ragionato di un senso che vada bene per la vita del consultante, senza peraltro la certezza di trovarlo, ma con la consapevolezza che vale sempre la pena immergersi nell’orizzonte (sempre troppo ampio) di questa ricerca. Vale la pena anche perché può capitare che la vita cambi e prenda direzioni migliori, più consapevoli, più comunitarie, più vicine alla saggezza.

E alla felicità! L’ho detto: felicità!

Note

1 Intanto, a rigore, chi aiuta deve avere delle conoscenze salde e certe cui aggrapparsi, mentre il filosofo sa soltanto di non sapere. In ogni caso, nel senso psicologico del termine, la consulenza filosofica non è una relazione d’aiuto.

2 Il concetto di cura e di cura di di sé ricorre innumerevoli volte nella storia della filosofia, dalle origini ai giorni nostri, da Socrate a Heidegger, dalle filosofie dell’Ellenismo a Foucault. A questo proposito mi sembra chiaro Romano Madera quando afferma che la filosofia si prende cura della «vita nella sua normalità e, quindi, nella precarietà del suo senso e nell’inconsapevolezza di questa precarietà», in R.Madera-L.V.Tarca, La filosofia come stile di vita. Introduzione alle pratiche filosofiche, cit., p. 42.

3 Le mie riflessioni riguardano solo la consulenza uno-a-uno, non avendo avuto esperienze di consulenza di gruppo o di consulenze aziendali.

4 Nel contesto di una consulenza, relativizzare non significa ovviamente sminuire o bonariamente ridimensionare, ma aumentare le prospettive, osservare da punti di vista diversi, più ampi e completi.

5 Mi riferisco a spunti da Marc Sautet, Socrate al caffè, TEA, Milano 2007 e da Shlomit Schuster, La pratica filosofica, Apogeo, Milano 2006.

6 La distinzione normale /anormale apre scenari pressoché infiniti da affrontare.

7 Umberto Galimberti, La casa di Psiche. Dalla Psicoanalisi alla pratica filosofica, Universale Economica Ferltrinelli, Milano 2008, p. 9.

8 Ivi, p. 10.

9 Non esiste ovviamente una sola psicoterapia ma un numero altissimo, e con enormi differenze reciproche, di psicoterapie. Sto forzatamente semplificando poiché lo scopo qui non è certo di dare conto in modo completo delle varie psicoterapie ma evidenziare la specificità della consulenza filosofica.

10 Un’eccezione è l’Analisi esistenziale di L.Binswanger, che, pur impiegando in maniera metodologica gli esistenziali di Heidegger, mi sembra più attento di altri alla dimensione fenomenologica (che non quella astrattamente epistemologica).

11 Particolarmente incisivo a mio avviso è H. Husserl in La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale: «La scienza è pur sempre un’ideazione che l’umanità ha prodotto nel corso della sua storia, sarebbe perciò assurdo se l’uomo decidesse di lasciarsi giudicare da una sola delle sue ideazioni», Il Saggiatore, Milano 1972, p. 147.

12 La filosofia corre anche il rischio di chiudersi in una presuntuosa torre eburnea. Ma io parlo di cosa significhi per me la filosofia (ivi compresa la grande influenza heideggeriana che riconosco), delle mie scelte ermeneutiche nella vita e, quindi, in consulenza.

13 È, in fondo, l’antica questione del cosa sia la virtù e se essa sia insegnabile.

14 Mi ricollego qui idealmente alla questione diltheyana della differenza tra scienze della natura e scienze dello spirito e della connessa differenza tra spiegazione e comprensione, tant’è che successivamente Jaspers in Psicopatologia generale si può esprimere affermando che: «È possibile spiegare qualcosa senza comprenderlo», Il Pensiero Scientifico, Roma 2000, p. 30.

15 Le tracce che riconosco indelebili in me sono molte: impossibile non citare Socrate, Nietzsche e Heidegger, punti di riferimento quasi obbligati (almeno il primo) di un consulente filosofico. Hanno avuto e hanno su di me un grande peso anche Parmenide, Spinoza, Jung, Jaspers e chissà quanti altri che non cito o che nemmeno so riconoscere.

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