N. 6, dicembre 2010 – Università
L’Università nasce con uno scopo essenziale: riunire i diversi saperi in uno spazio privilegiato, che non sia privilegio di pochi. Quest’ultima aggiunta -di valore- alla definizione è il risultato di un processo di democratizzazione avviato da lotte sociali e rivolte, con il sacrificio spesso di giovani vite, per rincorrere il sogno dell’uguaglianza meritocratica. Sembra un ossimoro, ma non lo è. Il Romanticismo ci ha insegnato che mentre la razionalità, sensata o insensata che sia, fa uguali, il sentimento diversifica rendendo al mondo l’irriducibilità di ogni esserci. E il sentimento non è una semplice modalità di usare i propri sensi, ma l’individuale capacità di usare la propria ragione. In questo senza dubbio ci diversifichiamo. Comunemente si ritiene che si tratti di doni naturali, che fanno del genio un essere speciale. Al di là della naturale predisposizione, però, che non necessariamente rende geniali, in realtà le capacità di cui qui si sta trattando sono assai spesso il frutto di un durissimo lavoro -che il più delle volte “i molti” considerano inutile- fatto di “studio matto e disperatissimo”, per dirla con Leopardi. L’uguaglianza dunque è la giusta intenzione di dare a tutti coloro che veramente meritano le stesse opportunità. Il problema dell’Università –almeno in Italia- non è individuare chi merita, ma chi decide in ambito meritocratico. Purtroppo, il sistema universitario attuale ha fagocitato, dentro un meccanismo perverso che tutti gli addetti ai lavori conoscono, gli obiettivi democratici perseguiti negli ultimi due secoli, inibendo nella meta anche le azioni volte al cambiamento. Il senso di frustrazione che molti studiosi di altissimo livello finiscono col provare non viene superato certo dalla consapevolezza dei tanti nomi che pur sono rimasti nella storia a dispetto delle continue bocciature subite. Giorgio Colli docet, fermato al grado di “professore associato” poiché l’accademia gli ha sempre preferito altri come “professore ordinario”. La vita vissuta non è quella che immaginificamente ci attende dopo la morte, ma è questa. Il riscatto non può dunque arrivare se non nella vita che si vive e non nell’eternità muta che ci attende. Per non parlare del fatto che non tutti siamo Giorgio Colli. Dare l’opportunità di poter concorrere in modo giusto e onesto è in Italia una chimera, almeno in ambito universitario. La gravità dei fatti è ancora una volta italiana: la mafiosità di questo meccanismo è del tutto scoperta. Per riprendere una battuta, è come tentare per anni di arrestare un latitante con tanto di esercito in azione affannandosi nell’estenuante ricerca del pulsante da pigiare sul citofono del palazzo in cui comodamente vive. Fior fior di accademici, disgustati dal meccanismo che primariamente li vede coinvolti, hanno pubblicamente denunciato lo stato di cose. In Italia pare però che basti salvare la forma perché la sostanza sia adeguata alla giustizia. Nel momento in cui un Parlamento morente sta varando una riforma dell’Università voluta a tutti i costi da Confindustria e dalla CRUI (la Conferenza dei Rettori, “baroni” per eccellenza) e che non risolve quasi nessuno dei problemi e anzi li aggrava sottraendo risorse e chiudendo il futuro, abbiamo voluto dedicare un’ampia parte di questo numero alla questione che ci tocca tutti come studenti, docenti, genitori, cittadini: la possibilità di apprendere i saperi in modo rigoroso e fornire a essi il contributo del nostro talento.
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