Giuseppe Abamonti, un repubblicano tra Oneglia, Milano e Napoli

Di: Pasquale Indulgenza
3 Dicembre 2010

“Il filosofo deve volere la rivoluzione per tutti,

e non solamente per sostituire una classe all’altra,

e sopra tutto deve prevenire

che i privilegi ridicoli della nascita

non siano rimpiazzati

dalla distinzion più odiosa della ricchezza.”

Nel terzo numero di Vita pensata avevamo rievocato la figura di Michele De Tommaso, segnalandone l’opera. In quell’articolo, si ricordava, tra i patrioti fuggiti da Napoli e venuti a Oneglia, dove avrebbero collaborato con Filippo Buonarroti tra il 1794 e il 1795, Giuseppe Abamonti, noto anche come Giuseppe Abbamonte o Giuseppe Abbamonti.

Di questo altro importante esponente del giacobinismo meridionale, cui va riconosciuto un ruolo significativo nella riflessione prerisorgimentale e risorgimentale, si parlerà in un convegno che la Scuola di Alta Formazione “Michele De Tommaso” si propone di tenere a Imperia nella prossima primavera, nell’ambito delle iniziative per i 150 anni dell’Unità d’Italia.

Il presente contributo vuole essere un ricordo dell’uomo e una sintetica anticipazione di quanto si proporrà in quell’occasione.

Abamonti, nato nel 1759 a Caggiano, nel salernitano, dedito sin dalla prima giovinezza agli studi di legge, si laureò in giurisprudenza a Napoli e fu capace di conquistarsi precocemente notevole reputazione nel campo. Tra i primi sostenitori della rivoluzione francese nel Regno, in contatto con il gruppo di A.Giordano, ebbe rapporti con i Francesi, specie in occasione della permanenza in Napoli della squadra di Latouche-Tréville. Animatore nella natìa Caggiano, con Vincenzo Lupo, di un club della Libertà, impegnato nelle discussioni di ambiente massonico e negli incontri per la costituzione della Società Patriottica, che avrebbe dovuto giungere alla fusione delle realtà massoniche e di quelle giacobine (con Michele De Tommaso, risulta tra coloro che parteciparono alla famosa “cena di Posillipo” del 1793 che segnò, sulla base della celebre, omonima costituzione, l’inizio dell’attività organizzata dei giacobini napoletani), risultò coinvolto nella congiura del 1794 organizzata da Vitaliani, venendo arrestato con Pagano, Ciaia e con altri ventotto compagni. Scarcerato dopo alcuni mesi di prigionia per insufficienza di prove, con la nuova ondata di persecuzioni della polizia, dopo che la Giunta di Stato ebbe proscritti circa duecentocinquanta altri patrioti, si unì a Russo, Pagano, Cestari, e, noleggiata una barca, riparò a Genova. Giunse così in luglio a Oneglia, occupata nell’aprile dall’esercito francese, dove fu accolto da Filippo Buonarroti, a capo dell’amministrazione civile dei territori occupati da Mentone a Loano, che aveva già ospitato e stava attivamente impegnando altri patrioti meridionali giunti nella cittadina dell’Estremo Ponente Ligure. In gennaio, accompagnato da una lettera di Buonarroti che informava il Commissario della guerra che avrebbe trovato in lui “i lumi e la saggezza di un buon repubblicano”1 fu incaricato di una missione a Ormea come agente provvisorio per riparare i mali della guerra sofferti dagli abitanti. Dedito, come la più parte dei patrioti napoletani, all’opera di propaganda, Abamonti fu nominato da Buonarroti, a seguito di concorso, “maestro di 2^ classe” insieme a Ascanio Orsi, Michele De Tommaso, e fu incaricato dell’insegnamento di materie storico/giuridiche a Loano2 .

Su questa generosa e innovativa esperienza politico/pedagogica, sull’importanza dei contributi offerti ‘sul campo’ dai singoli protagonisti, c’è sicuramente da condurre, nei luoghi dove essa maturò e si svolse, ulteriori ricerche. Lo aveva suggerito dodici anni fa Alessandro Natta3 in uno dei suoi ultimi scritti, sottolineando il fatto che Buonarroti era vissuto, oltre che a Oneglia, a Sarola e a Loano, e che De Tommaso era rimasto a lungo a Porto Maurizio, dove, tornato dopo un periodo di esilio, sarebbe morto.

Abamonti si trovava ancora nel territorio occupato quando Buonarroti fu rimosso dal suo incarico dai Francesi. Nell’agosto 1796 raggiunse Milano, dove prese a svolgere da subito una intensa attività, risultando, tra l’altro, uno dei testimoni che sottoscrissero, il 14-15 ottobre, “l’atto notarile della libertà lombarda”. Nel corso di quella decisiva permanenza, in un contesto fortemente stimolante, sviluppò il proprio impegno pubblico e collaborò al Termometro politico della Lombardia, giornale che costitutiva un importante punto di riferimento per chi sosteneva il modello repubblicano-unitario, al quale, dal 25 giugno 1796 al 5 dicembre 1798, sotto la direzione di C.Salvador, fecero capo altri patrioti napoletani, quali F. S. Salfi, M. Galdi, C. Lauberg. Nel 1797 presentò alla Società di pubblica istruzione, cui era stato ammesso, il Saggio sulle leggi fondamentali dell’Italia libera, la sua opera più importante. Il testo, il cui sottotitolo era“Dedicato al popolo italiano”, fu edito dallo stampatore Luigi Veladini. Ottenuta, insieme a Galdi e Celentano, la naturalizzazione e la cittadinanza lombarda, e successivamente anche quella bresciana, si impegnò nella riflessione filosofico/giuridica sulle emergenti esigenze costituzionali, fu tra i fondatori del Giornale dei Patrioti italiani, che diresse inizialmente, e prese a collaborare attivamente con il Monitore italiano. Alla proclamazione della Repubblica Cisalpina (29 giugno 1797), Abamonti fu nominato membro della Commissione esecutiva generale e, nel 1798, ebbe la carica di segretario generale del ministro di polizia e di giustizia, ma venne successivamente arrestato, insieme col Galdi, per aver protestato contro le violenze del commissario francese Rivaud, nell’ambito dei contrasti politici tra i generali “democratici” G. Brune e B. Joubert e il Direttorio francese.

Nel considerare l’intensità e il valore di un simile impegno, occorre tenere presente il quadro complessivo della ricchezza della discussione e della riflessione politica che andava maturando in quegli anni, al Sud come al Nord, tra i giacobini italiani4. Ricchezza che proveniva sia dal vivissimo confronto tra le diverse posizioni, che dalla forza dell’esperienza dell’emigrazione politica, drammatica ma decisiva. Sulla scorta degli importanti studi di Anna Maria Rao5, rileviamo che il periodo apertosi con la rivoluzione del 1789 aveva dato luogo a un fuoruscitismo politico di tipo ormai decisamente moderno, profondamente diverso, nelle motivazioni e negli atteggiamenti, dai precedenti conosciuti nei paesi europei. La storica ha ben mostrato come l’emigrazione politica ebbe un ruolo non secondario nella circolazione delle idee e dei movimenti rivoluzionari in Europa, e nella stessa evoluzione della Rivoluzione francese, evidenziando il fatto che l’esperienza dell’esilio, nuova forma della vicenda politica, trovò in Italia uno dei contesti più significativi anche prima che gli eventi del «triennio giacobino» ne provocassero un forte incremento. Le ricerche della studiosa chiariscono i rapporti che, in un gioco fittissimo di reciproche azioni e reazioni, l’emigrazione politica rivoluzionaria italiana, più di quella di altri paesi, ebbe con la storia della rivoluzione francese. Un intreccio cui va riconosciuto un ruolo di primo piano, in particolare, nelle vicende del Direttorio, nella sua caduta, nella ripresa giacobina del 1799, tale da lasciare un segno profondo nella vita politica italiana negli anni del Consolato e dell’Impero, ma anche nei futuri sviluppi risorgimentali, relativamente al maturare sia dell’idea unitaria che di quella democratica.

Liberato nel gennaio 1799, Abamonti si recò, a seguito delle truppe del generale J.-E. Championnet, cui aveva scritto una lettera di solidarietà, a Napoli, dove fu chiamato a fare parte del governo provvisorio della Repubblica. I venticinque membri prescelti furono divisi in sei comitati (Comitato Centrale, Comitato dell’interno, Comitato della Guerra, Comitato delle finanze, Comitato della Giustizia e della Polizia, e Comitato della legislazione). Con l’arrivo del commissario Abrial, Abamonti fu nominato presidente del Comitato Centrale e poi membro della Commissione esecutiva. Con Francesco Mario Pagano, ebbe anche l’incarico della organizzazione del tribunale di giustizia, poi affiancò questi, insieme a Giuseppe Logoteta e Giuseppe Cestari, nella compilazione del progetto della nuova costituzione. Il Progetto di costituzione per la repubblica napoletana (1799), stampato originariamente in un numero di copie assai limitato, delle quali sono sopravvissute soltanto quattro, e riedito saltuariamente nel corso dell’Ottocento e del Novecento, ha conosciuto un’edizione commentata soltanto nel 1994, grazie alla cura di Mario Battaglini, che ne ha riproposto la ristampa anastatica del testo originale in appendice6. La storiografia dell’ultimo ventennio ha costantemente riaffermato la centralità di questo documento per la cultura democratica settecentesca e la sua importanza per la storia italiana ed europea, aggiungendo importanti contributi di analisi e di ricerca rispetto ai risultati offerti dall’edizione Battaglini. Il Progetto, come è noto, non ebbe neanche il tempo di essere approvato, ma fu decisivo per la maturazione del costituzionalismo e avrebbe ispirato i movimenti democratici e liberali dell’800. Nella sua elaborazione si ritrovavano, problematicamente, l’eredità dell’intera stagione illuministica e riformatrice napoletana, l’impronta di quella “filosofia in soccorso de’ governi” imperniata sul magistero di Antonio Genovesi e di Gaetano Filangieri e di cui espressione più significativa era il pensiero di Francesco Mario Pagano, il patriota che con onestissimo travaglio aveva riconsiderato i propri convincimenti in relazione alle esigenze rivoluzionarie, ma anche il dibattito presente all’interno dei giacobini napoletani tra un’ala radicale e un’ala più moderata e gradualista, come testimoniato dalla forte polemica tra Pagano e Vincenzio Russo, altro importante esponente del movimento democratico che nei sui Pensieri politici, pubblicati nell’estate del 1798 a Roma, aveva sviluppato teorie filosofico/politiche che il primo aveva giudicato viziate di utopismo e prive di adeguato realismo7. Quel Progetto fu anche ritenuto da alcuni contemporanei, tra cui Vincenzo Cuoco, troppo schiacciato sul modello costituzionale francese. Primo storico della Repubblica napoletana del 1799, autore di una riflessione culminante nell’elaborazione della nota categoria storiografica della “rivoluzione passiva”8, Cuoco muoveva al testo napoletano una critica riferita in realtà al costituzionalismo rivoluzionario italiano nel suo complesso, i cui artefici, a suo avviso, senza tenere in debito conto le esigenze concrete delle popolazioni interessate, avevano inteso introdurre ordinamenti identici a quelli sperimentati in Francia commettendo l’errore di vedere nelle costituzioni null’altro che una sovrastruttura da imporre al popolo a proprio arbitrio, anziché concepirle come prodotto naturale e spontaneo della sua coscienza storica. In virtù di tale concezione rigorosamente storicista, pur non negando che il progetto costituzionale del Pagano fosse “migliore al certo delle costituzioni ligure, romana, cisalpina”, il Cuoco lo giudicava, in definitiva, “troppo francese e troppo poco napoletano”.

Oggi, ferma la considerazione delle ingenuità e degli errori commessi dai repubblicani nella loro breve esperienza di governo, gli approfondimenti sviluppati dagli storici nel corso degli ultimi venti-venticinque anni sull’impianto del Progetto, sulle discussioni e i confronti riportati dal Monitore Napoletano diretto da Eleonora De Fonseca Pimentel, sulle stesse testimonianze dei contemporanei, consentono di ricavare la centralità che in quel drammatico contesto ebbe, per i suoi protagonisti, il nesso tra eguaglianza e giustizia sociale, la necessità di una politica egualitaria (su cui peraltro concordavano gli stessi Pagano e Russo, i quali dissentivano vicendevolmente su come sulla produzione e la circolazione della ricchezza) e la grande consapevolezza della necessità di intervenire strutturalmente sul terreno economico e, nel contempo, a favore di istituzioni democratiche. Questo approdo avanzato è riconoscibile proprio nell’evoluzione ideologica di Pagano, che lo porta, superando la prospettiva filangeriana di riforme guidate virtuosamente dall’alto, a coltivare e far sua “l’idea giacobina delle masse come oggetto e soggetto primario dell’azione rivoluzionaria e del governo democratico”9.

Al di là della pur importante distinzione tra “moderati” e “radicali”, nella storiografia più recente si è lavorato per far emergere la genesi e il principio ispiratore dei progetti perseguiti, comprendendo meglio che l’egualitarismo giacobino ha sì suggestioni e spunti che si richiamano alla tradizione letteraria e filosofica dell’utopismo, allo spirito umanitario dei lumi, a una sollecitudine per le misere condizioni di vita del popolo, ma soprattutto una natura squisitamente politica, che lo spinge a voler creare le condizioni indispensabili per lo stabilimento e il consolidamento del regime democratico, nella convinzione che esso poteva reggersi solo in una società caratterizzata da un elevato grado di eguaglianza nella distribuzione della ricchezza.

Nel Direttorio creato con l’arrivo di Abrial, venuto a sostituire Championnet, Abamonti che, secondo la testimonianza di Pietro Colletta10, era già stato l’oratore prescelto all’interno di una delegazione di cinque membri del Governo per parlamentare con il generale allorché la tassazione necessitata dalle vessatorie e inique condizioni imposte dai Francesi faceva salire il malcontento popolare, si impegnò ulteriormente per riparare gli errori passati e migliorare l’amministrazione, per fronteggiare la miseria delle moltitudini, ma non ottenne quei risultati che si riprometteva dai suoi sacrifici. Più tardi, quando la reazione si avanzava trionfante fino alle porte della Capitale, tenne il suo ruolo e fino agli ultimi giorni firmò i provvedimenti legislativi di competenza, sia civili che militari. Entrate in Napoli le truppe sanfediste, si ritirò in Castel S. Elmo e oppose cogli altri repubblicani lunga e valida resistenza fino a che, venuti a patti, ebbero tutti promessa di aver salvo la vita e le sostanze e s’imbarcarono su un legno inglese per la Francia. Non approvata la capitolazione da Nelson, Abamonti, con altri patrioti, fu chiuso nella ‘Fossa del Coccodrillo’, dove si vuole che occupasse il tempo di quella prigionia in discussioni filosofiche e giuridiche, argomentando su questioni quali la pena di morte e l’immortalità dell’anima. La notte del 27 agosto 1799, fu condotto dinanzi alla Giunta di Stato: rispose alle accuse che gli erano mosse e che gli procurarono la condanna a morte sulla forca e la confisca dei beni. Per la notizia della calata in Italia di Joubert ebbe sospesa la sentenza e poi commutata dal Re, per consiglio di Acton e del cardinal Ruffo, nel carcere perpetuo, come risulta dal Rapporto al ministro Carnot di Lomonaco. Trasportato il 6 ottobre da Napoli in Sicilia fu chiuso nei fornusi di Castellamare di Palermo, poi nell’ergastolo di Favignana, dove rimase ventidue mesi, sino alla pace di Firenze (1801). Recuperata la libertà dopo la battaglia di Marengo, tornò al paese natio, ove potè ristorare la salute precaria. Successivamente, si recò a Milano, per rientrare a Napoli nel 1806 rientrò a Napoli, dove, un anno dopo, fu immesso nella magistratura da Giuseppe Bonaparte, divenuto re, a far parte di una Giunta per la scelta dei magistrati, presieduta da Vincenzo Cuoco; più tardi, nel 1809, fu nominato da Gioacchino Murat membro di un Consiglio di stato modellato sul sistema francese. La carriera in magistratura di Abamonti proseguì anche successivamente: alla restaurazione dei Borboni, acquistata fama di onesto amministratore, dopo ripetuti inviti, entrò nell’alta magistratura e tenne con onore, pur parecchi anni, l’ufficio di consigliere della Corte suprema di giustizia in Napoli, poi anche quello di consigliere di giustizia nel S. R. Consiglio. Con decreto del 27 giugno 1817, da Napoli fu mandato a Trani come presidente della Gran Corte civile, e coprì tale ufficio fino alla metà dell’anno successivo, quando, ammalatosi di febbri palustri, dovette far ritorno a Napoli. Peggiorate le sue condizioni di salute a metà del 1818, abbandonò ogni cura pubblica e si ritirò a vita privata, spegnendosi alcuni mesi dopo e venendo sepolto nella chiesa di S. Giuseppe dei Nudi.

Per la lucidità con cui pone il problema dell’eguaglianza sociale, vista come condizione imprescindibile per la sopravvivenza delle istituzioni democratiche, per la consapevolezza del nesso tra questione sociale e questione nazionale (anche questa sollecitata in maniera significativa durante il pur breve periodo onegliese), Abamonti, esponente di spicco del pensiero giuridico e costituzionale che matura tra ‘700 e ‘800, è stato considerato da alcuni storici11 come l’anticipatore del programma della rivoluzione napoletana, i cui quadri si erano formati nelle esperienze maturate in giro per l’Italia a seguito della fallita congiura del 1794. Programma che il patriota ed esule di origine salernitana aveva enunciato nella Milano del 1797 con chiare parole di respiro nazionale e grande lucidità: “Chi rifletterà alle circostanze attuali dell’Italia, dovrà convenire che è necessario interessare immediatamente la massa della nazione nel suo cambiamento politico, altrimenti la nostra repubblica sarà un aborto senza vita” 12.

La considerazione dell’importanza del progetto filosofico, giuridico e politico cui lavora Abamonti con i suoi Saggi, prodotti tra Oneglia e Milano, dell’intensissima attività pubblicistica e di progettazione costituzionale svolta in Lombardia, del contributo di elaborazione e di organizzazione che successivamente assicura nell’ambito del governo della Repubblica napoletana, aiutano a restituire una prospettiva che consente finalmente di inquadrare la rivoluzione del 1799 “come un momento altamente significativo nell’elaborazione democratica del Risorgimento, e insieme come un punto di riferimento essenziale per chiunque abbia a cuore ancor oggi la rinascita civile del Mezzogiorno”13.

È oggi acquisito che dopo il 1945, via via superandosi il giudizio di Croce e degli storici liberali e riconoscendosi più attentamente le aspirazioni radicali e democratiche dei fondatori della Repubblica napoletana e dei patrioti italiani che si erano formati nell’età della rivoluzione francese, si è teso a vedere nel “triennio giacobino” un periodo in cui era stato gettato non solo il germe dell’Unità d’Italia, ma anche quello della futura storia dell’Italia repubblicana14.

Come ha ben sostenuto Anna Maria Rao, con la Repubblica napoletana, ultima delle repubbliche del ‘triennio’, sembrava potersi realizzare quel progetto di unificazione preconizzato fin dal 1794-1795 tra gli esuli raccolti ad Oneglia intorno a Filippo Buonarroti e sul quale particolarmente i patrioti meridionali avevano continuato a insistere sui giornali pubblicati a Milano, attraverso gli interventi scritti sul Termometro Politico e sul Giornale dei Patrioti da uomini come Matteo Galdi, Francesco Salfi, Giuseppe Abamonti15. La consapevolezza, in colui che fu chiamato nel 1799 a presiedere il Comitato Centrale della Repubblica, di favorire e agire una rivoluzione che non producesse solo la sostituzione di una classe con un’altra, del carattere universale e profondo della trasformazione da promuovere, è posta naturalmente in termini arcaici, tuttavia in essa è chiara la questione di fondo: far sì che la democrazia sia una conquista reale per tutti, e non solo per quei pochi che, grazie al potere o alla ricchezza, sono in grado di far valere i proprio diritti. E leggendo il Saggio sulle leggi fondamentali dell’Italia libera, probabilmente scritto a Oneglia16, si conferma ancora l’importanza dell’esperienza maturata in quello straordinario laboratorio di idee e pratiche politiche, “seminario” di giacobinismo, per dirla con Galasso, che fu la repubblica diretta da Buonarroti, prova concreta di governo per i patrioti ed esperienza da cui venne lo stimolo a una ripresa del robespierrismo in una interpretazione nettamente egualitaria. Come pure, prendendo in esame il prospetto del Giornale dei Patrioti che Abamonti aveva cofondato a Milano, si può rilevare la forte consonanza dei concetti ivi affermati con i principi sostenuti da Buonarroti, di religione teistica purgata dai “pregiudizi” e da interessi mondani, di eguaglianza civile e di sovranità popolare, della necessità ribadita con insistenza dell’istruzione popolare garantita da scuole aperte a tutti e di pubbliche assemblee per l’educazione civica; di indipendenza e di unità, infine, per l’Italia. In questo quadro, si mossero i patrioti che sarebbero stati perseguitati come “unitari”. Ma di queste intuizioni e di queste idee, e del loro riversarsi nel dibattito risorgimentale e post/unitario, si parlerà nel corso del convegno che si terrà a Imperia nella prossima primavera.

Note

1 Cfr. Pia Onnis Rosa, Filippo Buonarroti e i patrioti italiani, in Filippo Buonarroti e altri studi, Edizioni di storia e letteratura, Roma 1971, p. 24

2 Ivi, p. 103

3 Natta afferma testualmente: “Forse non abbiamo cercato abbastanza”. A. Natta, in Io in Arcadia, Filippo Buonarroti, commissario ad Oneglia, in Anch‘io in Arcadia, Centro editoriale imperiese, Imperia 1998, p. 24

4 Si veda, al riguardo, quanto mette in luce Vittorio Criscuolo in L’esperienza della repubblica napoletana nel quadro del triennio 1796-1799, in Napoli 1799 fra storia e storiografia, a cura di A.M. Rao, Vivarium, Napoli 1999

5 Cfr. Anna Maria Rao, Esuli. L’emigrazione politica italiana in Francia. 1792-1802, Guida, Napoli 1991

6 Cfr. Mario Battaglini, Mario Pagano e il Progetto di Costituzione della Repubblica Napoletana, Archivio Guido Izzi, Roma 1994. Di considerevole importanza, per gli studi più recenti, l’edizione del Progetto curata da Federica Morelli e Antonio Trampus, con l’introduzione di A. M. Rao, Edizioni della Laguna, Venezia-Mariano del Friuli, 2008

7 Si veda, al riguardo, la ricostruzione che ne fa Vittorio Criscuolo in L’esperienza della repubblica napoletana nel quadro del triennio 1796-1799, cit., pp. 292-293

8 Cfr. Vincenzo Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, a cura di Pasquale Villani, Laterza, Bari 1980. Sull’opera di Cuoco, si vedano anche gli importantissimi studi di Antonino De Francesco, tra cui l’edizione critica del Saggio, Piero Lacaita, Manduria-Bari-Roma 1988

9 G. Galasso, I giacobini meridionali, (1984), in “Rivista storica italiana” , XLVI, p. 97

10 Pietro Colletta, Storia del Reame di Napoli, a cura di Anna Bravo, UTET, Torino 1975, p. 132

11 Si veda V. Criscuolo, L’esperienza della repubblica napoletana nel quadro del triennio 1796-1799, cit., pp. 269-294

12 Giuseppe Abamonti, Saggio sulle leggi fondamentali dell’Italia libera, in A. Saitta, Alle origini del Risorgimento: i testi di un “celebre” concorso, Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, Roma 1964, vol. III, p. 287.

13 Vincenzo Criscuolo, L’esperienza della repubblica napoletana nel quadro del triennio 1796-1799, cit., p. 294.

14 Cfr. Pasquale Villani, Il 1799 nella storia d’Italia, in Napoli 1799 fra storia e storiografia, Vivarium, Napoli 1999

15 Cfr. A. M. Rao, Mito e Storia della Repubblica Napoletana, in La Repubblica napoletana del Novantanove. Memoria e mito, Archivio di Stato di Napoli, a cura di Marina Azzinnari, Gaetano Macchiaroli editore, Napoli 1999

16 Cfr. Pia Onnis Rosa, Filippo Buonarroti e i patrioti italiani, cit., p.23

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