Stessa traiettoria circolare

Di: Giusy Randazzo
1 Novembre 2010

Clorinda Valle ha molto in comune con la giovane fotografa americana  Francesca Woodman. Utilizza spesso se stessa nelle sue foto e coniuga immagine e testo che traduce in didascalie complete che non lasceranno scampo ai futuri critici: non potranno elaborare fantasiose teorie se non partendo dal già detto dall’artista stessa. Anche Woodman, infatti, nel momento in cui scattava decideva di tanto in tanto di creare didascalie più lunghe che esplicitavano una precisa volontà: delimitare la possibilità ermeneutica della foto, costringendo la riflessione in una direzione che ritorna all’immagine e la riscopre dandole nuovo significato a partire proprio da ciò che l’artista vuole. Ecco dunque il senso del volto nascosto che si fa interprete del femminino e del mondo del femminino in cui il maschio è sempre presente. Un volto che spesso diventa maschera, aprendo così la strada per comprendere l’Altro -il maschio, l’estraneo-. Ed estraneo è anche il corpo quando diventa oggetto fotografato, guardato dall’io stesso che si fa fotografo.

Nell’immagine numero 1 la didascalia recita: Un uomo non ti dirà mai la verità, ma dagli una maschera e sarà sincero. E d’un tratto ci si sente costretti a scrutare con maggiore attenzione la fotografia. Si scoprono così i segni di ciò che si è quando si diventa altro da sé: il fondotinta che cambia il colore della pelle; le collane che decorano il collo esposto; il mascara e la matita nera che mettono in risalto il taglio degli occhi; le labbra dipinte di un rosso accesso che sembra memoria di quell’esigenza della specie di farsi notare per farsi scegliere. Quella metà parla, dicendo cose diverse dall’altra che pur ha la stessa espressione, per tal motivo ti aspetti di scorgervi un modo di guardare diverso. Soltanto dopo ci si rende conto che non può, anche volendo: l’unità del volto impedisce la differenza. Lo sdoppiamento è artificioso, per quanto appaia naturale. Eppure la metà non dipinta, semplice, coperta dai capelli, che la luce non illumina, paradossalmente, sembra più combattiva, più pronta all’attacco, nonostante il colore rosso delle labbra dell’altra potrebbe anche rimandare a un’aggressività originaria. E invece induce a pensare a un burattino o di nuovo a una maschera. L’incontro con se stessa diventa incontro con l’estraneo, insomma, che ci abita. Consapevolezza di chi si è attraverso la persona –maschera- che si diventa all’uopo. Un tema, questo, che ritorna spesso nella Woodman e che vive nelle sue didascalie -si pensi alla serie “A woman, a mirror. A woman is a mirror for a man”. Rappresenta il tentativo, come ha giustamente fatto notare Lorenzo Fusi, di voler studiare il rapporto donna-uomo, utilizzando quel sé oggettivato che diventiamo quando ci facciamo maschere. E ritorna il volto coperto, lo studio dell’ambiente, la cura del particolare.

E poi la scissione. Valle diventa Valle e la Woodman è lasciata al suo genio, in quel suo divenire prolungamento della natura, in quel modo unico di farsi tutt’uno con l’ambiente mimetizzandosi tra i particolari che acquistano dignità ontologica più di quell’ente che esiste, che lei è, e che si fa cosa tra le cose sussistendo come esse e scomparendo insieme con esse sullo sfondo o come sfondo. Valle trova la sua strada invece e si fa unica nel suo genere. Le didascalie diventano veri e propri aforismi che obbligano a seguire il suo obbiettivo fin dentro al suo obiettivo. Il testo si fonde con l’immagine, si perde l’inizio e la fine della creazione in un eterno ritorno in cui lo spectator non può che domandarsi se nasce prima l’immagine o il pensiero o viceversa o se l’atto creativo è il risultato di un exploit che si presenta a lei in un istante: il kairós che illumina la materia interrompendo il flusso temporale; che si apre a un senso che l’occhio del senso comune non può accogliere, perché immerso nel caotico ripetersi di cose che stanno senza apparente significato. E ce lo ricorda, la Valle, come nella foto n.2 la cui didascalia recita: Sono i dettagli a far la differenza in un mondo in cui tutto è contingente. Oppure in quella magnifica immagine a metà del ragazzo che mentre dice con gli occhi, diviene, con la bocca, altro da sé: –Gli occhi ti dicono quello che uno è, la bocca quello che è diventato– (foto n° 3). E tutto si ripete –stessa traiettoria circolare-; la maschera ritorna e ricorda che i burattini presto o tardi si ribellano al burattinaio (foto n°4) o sparisce risucchiata in un abbraccio che non libera- Non fuggire in cerca di libertà quando la tua più grande prigione è dentro di te (foto n°5); le domande si fanno incalzanti e le risposte probabili –Come diavolo si fa a distinguere qual è o non è la realtà. Magari siamo solo dalla parte sbagliata– (foto n°6); la visione si perfeziona e diviene magia della parola che ammette ciò che l’occhio è costretto a vedere e il corpo a subire- mi sei venuta a prendere alla fine (foto n°7).

Famelica quella mano, che sembra affondare le unghie nella carne, e dolce quella voce che ti par di sentire, che sembra aver atteso a lungo ciò che ferisce il corpo, ma al contempo lo magnifica. Eppure quella mano è senza dubbio la stessa che colpisce, la stessa che scatta, la stessa che scrive, la stessa che produce l’unità di opposti: dolore/gioia; luce/oscurità; realtà/finzione.

Che si possa generare una goccia di gioia in un giardino di sofferenza, la Valle lo sa, lo dice e lo mostra dimostrandolo, anche se si tratta soltanto di piatta irrealtà che non ha la profondità del reale quando felicemente si completa: Anche in una Città piena di dolore si può amare (foto n° 8). L’ironia segna il distacco, ma non si può che condividere la verità a cui approda. Rimangono poi le riflessioni aperte, in cui il voyeur è libero di partecipare alla creazione. L’ironia ritorna, lasciando che la contraddizione emerga e rimanga sospesa come nella foto n° 9 in cui il bicchiere è già sottosopra. Nessuno si chiede –troppo esplicito l’espediente- perché l’acqua non cada giù, ma da quel punto di visuale domandarsi se il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto apre altri orizzonti riflessivi. La Valle sembra saperlo e non mette il punto di domanda nella didascalia. Lascia vivere l’insuperabile nella temporalità che di volta in volta risponde, come nella foto n° 10 che recita: non tutto va come vorresti. E il bicchiere è vuoto, non di acqua, però, come si evince dallo sfondo incontrando la bottiglia di liquore che cela la disperazione, che diventa angoscia in chi guarda perché priva del significato noto al disperato.

Attraverso le foto della Valle la coscienza si fa oggettivamente durata. Il senso della realtà rappresentata viene costruito in un intero che supera le singole foto. Immagini che narrano, immergendosi in un flusso che supera la staticità dell’istante afferrato a cui la Valle dà voce con suoi aforismi didascalici. Si comprende in questo modo la potenza della fotografia, che mostra la verità che sottende alla percezione: il mondo è una nostra costruzione e quando ce ne rendiamo conto tutto diventa possibile anche prendere il sole con due dita (foto n° 11).

Clorinda Valle è una ragazza appena diciottenne. Non si chiama Francesca Woodman così come io non mi chiamo Rosalind Krauss. Epperò mentre io conosco sia la Krauss sia la Woodman, lei fino a qualche giorno fa non conosceva né l’una né l’altra. Dato rilevante per comprendere l’assoluta originalità della serie qui presentata. La storia è abbastanza comune. Una classe, un’insegnante nuova e una macchina fotografica nascosta mentre la docente si appresta a iniziare la lezione. La prof si avvicina e chiede spiegazioni. L’innocenza degli occhi e la giustificazione pronta, mentre le mani proteggono la macchina come fosse un cucciolo indifeso da lasciar fuori dal pasticcio. E invece la sorpresa, l’adulto non vuole sanzionare. Alla giovane allieva piace fotografare, ma non ha ancora la tecnica, dice. Sorge spontanea la richiesta di “vedere qualche scatto”. La studentessa stranita, s’illumina.

La Valle, forse, ha ragione, deve crescere nella tecnica. Ma le sue foto parlano già due volte e una terza quando lo spettatore se ne appropria traducendole in un senso proprio e privato. Forse la Valle non sa che la strada da percorrere è quella che sta già percorrendo; che a migliorare non può essere il suo occhio mentale o la sua mano accordata, e non può essere neanche la musica che nasce quando testo e immagine si fondono abbracciandosi. Forse la Valle non sa che, oltre all’apprendimento della tecnica, è necessario un allenamento ben più fastidioso: immergersi in quei pensieri complessi da cui vorrebbe essere liberata –liberami dalla complessità dei miei pensieri (foto n°12)- il cui vero dominio si realizza seguendoli anche se in costante rivolta. Come un nuovo Sisifo che con coraggio e assurdo eroismo porta in alto un masso che eternamente rotola giù: stessa traiettoria circolare (foto n. 13).

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