Spinoza: ‘sapere’ e ‘credere’

Di: Augusto Cavadi
1 Novembre 2010

Uno sguardo alla situazione attuale

Nella cultura cristiana –in particolare cattolica– si è ritenuto pacifico, almeno dall’Alto Medioevo in poi, che la sequela di Cristo fosse prima di tutto ed essenzialmente accettazione fiduciosa della sua rivelazione su Dio, sull’uomo e sulla storia. E che solo dall’accettazione di tanto autorevoli informazioni meta-fisiche (in parte raggiungibili dal retto uso della ragione, in parte eccedenti qualsiasi potenzialità intellettuale naturale) potesse/dovesse derivare una prassi di servizio solidale. La convinzione che la dottrina fondasse la pratica era talmente radicata da giustificare la più severa repressione dell’eresia: come fidarsi del comportamento quotidiano, concreto, effettivo di uno che dubiti della sia pur minima ‘verità di fede’ (ammesso, e non concesso, che si dia una ‘gerarchia delle verità’ dogmatiche)?

Ovviamente non sono mancate, rispetto a questa prospettiva ‘intellettualistica’ che ha trovato in Tommaso d’Aquino il suo più geniale interprete, le voci dissonanti. Già nello stesso Medioevo, ad esempio, la Scuola francescana -da san Bonaventura da Bagnoregio in poi– ha avanzato serie perplessità nel timore che la preoccupazione per l’ortodossia finisse col cancellare –o, per lo meno, con lo schiacciare sullo sfondo– quel primato dell’amore che risulta lampante nei testi biblici. La modernità assiste all’esplosione di una sorta di protesta contro le pretese della ragione in campo teologico: sulla scia di Lutero, pensatori di prima grandezza come Kant e Kierkegaard rivendicano a voce alta la priorità della volontà, della decisione esistenziale rispetto alle procedure logiche e a quel frutto ingannevole dell’intelligenza che sarebbe ogni teologia ‘filosofica’.

Da Trento al Vaticano I la reazione della Chiesa cattolica romana a queste derive irrazionalistiche (o, sarebbe più preciso dire, anti-intellettualistiche) non poteva essere ancora più drastica: chi sostiene che con la ragione non si possa stabilire con certezza l’esistenza di Dio e/o che la fede non consista essenzialmente nell’adesione a verità sovrannaturali manifestate all’umanità attraverso la mediazione unica di Gesù maestro, deve considerarsi fuori dalla comunione ecclesiale.

Il Concilio Vaticano I è del 1870: nei quasi cento anni che lo separano dal Vaticano II (1962 – 65) anche in ambito cattolico le posizioni critiche nei confronti della razionalità, della speculazione onto-teologica si fanno strada inesorabilmente. Étienne Gilson tenta di rivendicare –già sul piano storico- l’originalità e l’irrinunziabilità, per il credente, della “metafisica dell’esodo”; Jacques Maritain –su un piano più teoretico– denunzia il contagio deleterio per i cattolici in genere, e per i teologi in particolare, della “logofobia” imperante nello spirito del tempo. Ma invano. Lo stesso papa Giovanni Paolo II si vede a un certo punto costretto a intervenire solennemente con un’enciclica –la Fides et ratio– in difesa dell’insostituibilità della riflessione e dell’argomentazione dialettica nel cammino di fede di ogni soggetto: col risultato, mi pare, di riscuotere consensi più numerosi e più sinceri fra gli intellettuali ‘laici’ che tra i ‘cattolici’.

La situazione attuale appare dunque attraversata, almeno a prima vista, da una spaccatura. Da una parte, una minoranza di credenti che non vogliono rinunziare a pensare e che ritengono che questa loro fedeltà al diritto/dovere di pensare implichi la difesa del patrimonio teologico-dottrinario plurisecolare tramandato, infallibilmente o almeno autorevolmente, dal magistero ecclesiastico; dall’altra parte, una sempre crescente maggioranza di credenti che, convinti della ‘debolezza’ del pensiero, ritengono irrilevanti le dispute tra ‘ortodossi’ ed ‘eretici’, sprecate le indagini scientifico–filosofiche su questioni religiose e decisivo, al contrario, il criterio dell’ortoprassi (dunque della coerenza etica agli imperativi e ai consigli promananti dal vangelo di Gesù il Salvatore).

Una sparuta pattuglia ultraminoritaria

Se osserviamo più da vicino, scopriamo che in questa situazione di contrapposizione fra difensori della valenza pratica del cristianesimo (in polemica con quanti impiegano ancora energie nelle dispute teologico-filosofiche) e difensori della valenza veritativa del cristianesimo (e dunque del suo apparato dogmatico) è possibile individuare una sparutissima pattuglia di credenti che non si riconoscono né nel partito anti-metafisico di maggioranza né nel partito filo-metafisico di minoranza. Si tratta di intellettuali, per nulla organizzati fra loro e dispersi nei cinque continenti, che (a differenza degli anti-metafisici) riconoscono un ruolo ineliminabile all’intelligenza critica, al confronto dialettico e –in molti casi– persino agli ardimenti della costruzione metafisica; ma che (a differenza dei filo-metafisici tradizionali) guardano con estrema diffidenza l’intellettualizzazione della fede e riconoscono, dunque, l’assoluto primato della testimonianza esistenziale quando si entra nel campo dell’esperienza religiosa. Questo ‘resto’, programmaticamente fedele a una ragione ‘sobria’ che non si inginocchia al relativismo dominante ma che, neppure, sopravvaluta la propria ‘forza’ al punto da ritenere di essere in grado (per natura e/o per grazia) di perlustrare il Mistero; questo ‘resto’ che, pur geloso di ogni frammento di verità, ammette volentieri con Pascal che l’ordine del ‘pensiero’ –per quanto nobile e necessario– è a sua volta trasceso, dal punto di vista della realizzazione personale, dall’ordine della ‘carità’; questo ‘resto’, oggi statisticamente così esiguo, è destinato estinguersi come una specie zoologica priva di protezione o a diventare il germe di un’umanità adulta finalmente liberata dalle contaminazioni fra legittima curiosità intellettuale e sequela del vangelo di Cristo?

Difficile, almeno per me, rispondere. Il “sonno della ragione” ha già partorito, nei primi due millenni di storia cristiana, i suoi “mostri”; né –sul versante opposto– si può escludere che il dogmatismo razionalistico di chi identifica (per riprendere Raimon Panikkar) l’apertura della fede con questo o quell’altro sistema di credenze –dogmatismo oggi in crisi nonostante decreti e provvedimenti disciplinari della Congregazione per la dottrina della fede e la morale- possa conoscere in futuro fastosi revivals. So solo che questa posizione filosofico-teologico-spirituale, così problematica da non avere a disposizione un’etichetta con cui presentarsi ai convegni e –conseguentemente– esposta a incomprensioni e contestazioni disparate, non è senza padri. Ovviamente ogni epoca ha un suo modo inedito di affrontare le questioni e di formulare le risposte, ma ciò non toglie che si possano rintracciare nel passato dei ‘modelli’ di pensiero che, in buona sostanza, hanno aperto orizzonti nuovi e indicato la direzione di marcia più corretta. Per quanto riguarda la problematica sin qui richiamata (e, dunque, senza necessariamente abbracciare la sua ‘visione del mondo’ complessiva), direi che rientri –fra pochi altri- il caso di Baruch Spinoza.

La lezione di Baruch Spinoza.

I. L’irrinunciabilità dell’esercizio filosofico

Chi legga il suo Trattato teologico-politico del 1670 troverà senz’altro tesi un po’ contraddittorie che si lasciano armonizzare con qualche forzatura interpretativa o, comunque, che sono state espresse in maniera tanto cauta da non escludere equivoci. Tuttavia, pur riservando ai filologi il diritto all’ultima parola, mi pare che tre o quattro prospettive emergano dal contesto del volume con sufficiente, illuminante nettezza.

La prima è che Spinoza, a differenza del contemporaneo Pascal, non trova alcun motivo per “beffarsi della filosofia”, per civettare con la dura polemica luterana contro la ragione “prostituta del diavolo”. La sua valutazione dell’umanità, o per lo meno della stragrande maggioranza degli esseri umani, è impietosa. Avendo presente, pare di intendere, le differenti manifestazioni della religiosità -dai Greci ai Romani, sino ai Medievali e ai suoi contemporanei-, egli arriva ad affermare, con amaro sarcasmo: «Tutti, specialmente quando si trovano in pericolo e non sono in grado di soccorrere se stessi, implorano con preghiere e lacrime da donnicciola l’aiuto divino, e chiamano cieca la ragione (perché non sa mostrare la via certa per raggiungere le cose vane che essi desiderano) e vana l’umana sapienza; invece i deliri della loro immaginazione, i loro sogni e le loro puerili sciocchezze li credono responsi divini, anzi, credono che Dio sia avverso ai sapienti e che abbia scritto i suoi decreti non nella mente, ma nelle viscere degli animali, o che gli stolti, i folli e gli uccelli li annunzino per effetto dell’ispirazione divina e per istinto. Fino a tal punto il timore fa impazzire gli uomini!»1.

II. La subordinazione della conoscenza alla ‘buona’ pratica

Eppure -siamo a una seconda prospettiva– quest’uomo che, condizionato dal razionalismo cartesiano imperante, non corre certo il rischio di sottovalutare il ruolo della ragione nell’esperienza umana, non ha difficoltà ad ammettere che il conoscere non è fine a sé stesso. Spiazzando le abitudini mentali e i pregiudizi più diffusi, secondo i quali chi apprezza e coltiva la dimensione intellettuale debba necessariamente idolatrarla, sostiene infatti che il sapere è una méta preziosissima ma non ultima, definitiva: se abbiamo bisogno di verità, è per vivere ‘bene’, per essere felici. En passant, si autodefinisce tra coloro «qui veram scientiam, veramque vitam colunt»2, che coltivano sapere e prassi connettendoli come un’endiadi. L’impianto logico-matematico della speculazione spinoziana non deve indurci in errore: la lucidità ‘greca’ della sua mente è sorretta da un cuore ‘ebraico’ e, da ebreo malgrado tutto –se vogliamo, malgrado se stesso- , ritiene che l’essere umano sia fatto per ‘agire’, più che per ‘vedere’. Si potrebbe spulciare il Trattato e collezionare una serie di osservazioni, talora –almeno apparentemente– secondarie, che depongono a favore della consapevolezza per così dire filologica che Spinoza stesso possedeva di questa sua prospettiva sul mondo: per esempio là dove -citando Proverbi, 2, 3– scrive «Poiché, se invocherai la prudenza e chiamerai l’intelligenza [ecc.], allora comprenderai il timore di Dio e troverai la scienza di Dio», subito dopo aggiunge: «o piuttosto l’amore, dato che la parola ebraica jadah significa entrambe le cose». E, qualche riga ancora, consentendo con l’autore cui si attribuivano i Proverbi, così glossa : «Perciò la felicità e la tranquillità di colui che coltiva l’intelletto naturale dipendono soprattutto (…) dalla sua virtù interiore (cioè dall’aiuto interno di Dio), in quanto si conservano soprattutto vigilando, agendo e decidendo saggiamente»3. Ma non è il caso di inseguire e discutere analiticamente tutte le possibili citazioni. Ce n’è già una che, da sola, basta a spiazzare il lettore abituato, sin dalla manualistica scolastica, a leggere Spinoza come un inguaribile ‘razionalista’. Mi riferisco alle righe quasi conclusive del capitolo XIII: «Perciò non bisogna per niente credere che le opinioni considerate in assoluto, senza riguardo alle opere, abbiano alcunché di pio o di empio, ma bisogna dire che un uomo crede a qualcosa piamente o empiamente soltanto nella misura in cui dalle sue opinioni egli è spinto all’ubbidienza o da esse prende licenza a peccare o a ribellarsi: cosicché se uno, credendo a cose vere, diventa disubbidiente, costui ha in realtà una fede empia, mentre se, credendo a cose false, è ubbidiente, ha una fede pia»4.

III. La subordinazione della religione alla ‘buona’ pratica

Se non lo stiamo fraintendendo, lo Spinoza del Trattato è dunque convinto dell’irrinunciabilità dell’esercizio della ragione e della sua costitutiva finalizzazione all’orientamento etico nel mondo. Inanellate con queste prime due, troviamo una terza indicazione: anche la religione, per sua struttura costitutiva, tende alla perfezione etica del genere umano. Se si fa matematica o filosofia per realizzare più consapevolmente la propria umanità, a maggior ragione Testi sacri e speculazioni teologiche non possono essere giustificati se non in vista di una pratica migliore. Qui Spinoza è di una chiarezza inequivoca: «Infatti, dalla stessa Scrittura, senza alcuna difficoltà né ambiguità, noi percepiamo che l’essenza del suo insegnamento è amare Dio sopra ogni cosa e il prossimo come se stessi, e questo non può essere falso né può essere stato scritto da una mano frettolosa e incerta. Infatti, se la Scrittura avesse mai insegnato un’altra cosa, avrebbe dovuto insegnare diversamente anche tutto il resto, dal momento che questo è il fondamento di tutta la religione, tolto il quale tutta la costruzione crolla d’un sol colpo. Di conseguenza, la Scrittura non sarebbe più quella di cui stiamo parlando, ma tutto un altro libro»5. La tesi è talmente centrale nell’ottica di Spinoza che egli non teme di difenderla sino alle estreme conseguenze logiche (anche a costo di rischiare, come storicamente avvenne, la condanna delle diverse comunità confessionali sia ebraiche che cristiane, cattoliche o protestanti che fossero). Se partiamo dalla convinzione che l’amore è il fondamento della religione, possiamo infatti procedere in almeno due direzioni.

Se procediamo nella direzione positiva, assertiva, incontriamo la formulazione –spiazzante per quegli anni, ma non ancora del tutto ovvia neppure ai nostri giorni– che la rivelazione concernente “la vera virtù” non è stata donata “soltanto ai pii tra i Giudei , ad esclusione di tutti gli altri”, ma anche ai “veri profeti gentili” (“che, come abbiamo mostrato, tutte le nazioni hanno avuto”)6. Che significa: la centralità dell’amore come chiave ermeneutica delle Scritture ebraico-cristiane, nel momento stesso in cui le libera dalle scorie culturali che ne offuscano il messaggio decisivo, ne mostra la parentela genetica con le Scritture di tutte le altre tradizioni esterne all’ebraismo e al cristianesimo. Se la Bibbia insegna il primato dell’amore, insomma, merita di essere riscattata dal novero delle favole intessute di pregiudizi inaccettabili e di fantasie infondate; ma, per ciò stesso, perde il monopolio –per alcuni esaltante, per altri imbarazzante– di unica fonte della rivelazione divina all’umanità.

Se, poi, partiamo dalla tesi dell’amore come essenza della religione e ci muoviamo in direzione negativa, contestativa, incontriamo la formulazione –non meno spiazzante della precedente– che nella riflessione ecclesiale, man mano che ci si allontana da questo asse centrale, ci si avvicina alla “superstizione”, vera e propria caricatura della religione. Essa, la superstizione, «istruisce gli uomini a disprezzare la ragione e la natura e ad ammirare ciò che ad esse ripugna. Per cui non c’è da meravigliarsi che gli uomini, per ammirare e venerare di più la Scrittura, si ingegnino a spiegarla in modo che appaia il più possibile in contrasto con esse, cioè con la ragione e con la natura; perciò essi sognano che nella Scrittura siano nascosti profondissimi misteri e, trascurate tutte le altre cose utili, consumano le loro forze nell’indagare tali misteri, cioè delle assurdità, e tutto quanto immaginano nel loro delirio lo attribuiscono alla Spirito Santo e si sforzano di sostenerlo con la massima forza e con impeto passionale»7. La superfetazione speculativo-dogmatica, che sfigura il messaggio biblico (originariamente destinato a tutto il genere umano e consistente in «cose semplicissime, che possono essere percepite da chiunque, per quanto tardo possa essere» introducendovi «tante cose di speculazione filosofica da far apparire la chiesa un’accademia e la religione una scienza, o piuttosto una disputa»8, è la ragione radicale per cui la storia del cristianesimo è storia di conflitti sanguinosi e insanabili. Essa è la nemica interna della religione. Non mi pare che Spinoza neghi i dogmi tout court: piuttosto ritiene che abbiano diritto di cittadinanza solo se – e nella misura in cui – lasciano riconoscere il loro radicamento nel “comandamento” dell’amore. C’è un modo di intendere e praticare la teologia che –non limitandosi a spiegare come la fede debba avviare “alla giustizia e alla carità”- pretende di farne una sostituta della filosofia nella ricerca della verità. Dislocata rispetto al suo registro di competenza, la fede religiosa (per così dire snaturata da questo spostamento di registro) non solo non offre il sapere indebitamente richiestole, ma finisce col non essere in grado di offrire quella stessa saggezza pratica che le competerebbe di diritto.

IV. La sinergia fra ‘credere’ e ‘sapere’

Poste queste prime tre convinzioni spinoziane (la ragione scientifico-filosofica è ineliminabile; è funzionale alla prassi etica; anche la Scrittura ha una finalità pratica), trova per certi versi chiarimento e, per altri, suggello almeno in una quarta convinzione: l’impossibilità di una incompatibilità fra ‘vera’ religione e ‘vera’ filosofia. Esse si servono certamente di linguaggi differenti (né Spinoza nasconde la sua personale preferenza per un metodo intuitivo-deduttivo che, a suo parere, può dimostrare passo dopo passo la logica di un cammino di cui la predicazione profetica si limita ad indicare la méta), ma –se guardiamo allo scopo finale– religione e filosofia vi convergono: l’una e l’altra, infatti, hanno senso in quanto dischiudono la strada del saper vivere, cioè della pratica della giustizia e dell’amore. Spinoza ricorda bene la dottrina biblica secondo cui «noi non possiamo conoscere nessuno se non dalle opere; chi dunque abbonderà di questi frutti, cioè di carità, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, lealtà, mitezza e dominio di sé, di fronte ai quali (come dice Paolo in Galati 5,22) non c’è Legge, costui, sia egli istruito dalla sola ragione o dalla sola Scrittura, in realtà è istruito da Dio, ed è pienamente beato»9. Ciò che può risultare sorprendente -e irritante sia per l’ateo che voglia a tutti i costi difendere un’immagine sostanzialmente atea di Spinoza sia per il teologo che si rifiuti di riconoscere alla base della sapienza biblica un Logos accessibile anche fuori dai recinti confessionali e istituzionali– è che Spinoza accetti questo criterio di verifica non solo all’interno delle comunità religiose ma per ogni persona umana. Una pratica individuale e collettiva connotata dall’egoismo, dall’aggressività, dalla volontà di dominio sarebbe ai suoi occhi -se non mi sto sbagliando clamorosamente– sintomo eloquente, anzi infallibile, di una teoria non solo teologicamente ma anche filosoficamente aberrante.

Viceversa, se ci troviamo di fronte ad una vita riuscita -la ‘salvezza’ sperimentata da colui che si esercita nella «vera pratica della giustizia e della carità» – è del tutto secondario determinare che egli l’abbia appresa «con il lume naturale» oppure «con la rivelazione»10. Le vie della saggezza sono molteplici, tutte meritevoli di rispetto se rispettose delle altre: ma la saggezza, in cui l’intuizione (meta-razionale!) del Tutto si fonde con la gentilezza del tratto abituale, è una sola.

Note

1 B. Spinoza, Trattato teologico-politico, Introduzione, traduzione, note e apparati di A. Dini, Bompiani, Milano 2001; Prefazione, 5.

2 Ivi, II, 30

3 Ivi, IV, 67

4 Ivi, XIII, 172

5 Ivi, XII, 165

6 Ivi, III, 56

7 Ivi, VII, 98

8 Ivi, XIII, 167

9 Ivi, V, 80

10 Ivi, XIX, 229

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