Segno
Poche parole sono polisemantiche come questa: “segno”. Con essa ci si riferisce infatti a contenuti e significati assai diversi, plurali e tuttavia convergenti sulla base del fatto che un segno è qualcosa -qualunque cosa- che sta per qualcos’altro. Peirce esprime con chiarezza questa sua natura: «something which stands to somebody for something in some respect or capacity»1. Tutto è quindi segno, o tutto può diventarlo se viene interpretato da qualcuno come un indicatore di qualcosa. Morris ha ragione a ritenere che «la semiotica non ha a che fare con lo studio di un tipo di oggetti particolari, ma con gli oggetti ordinari in quanto (e solo in quanto) partecipano al processo di semiosi»2. La pervasività del segno nella vita sociale e nei rapporti interpersonali è data dal fatto che l’uomo stesso è «un segno. Vale a dire uomo e segno esterno sono la stessa cosa, come le parole homo e man sono identiche. Così il mio linguaggio è la somma totale di me stesso perché l’uomo è il pensiero»3. La varietà delle situazioni, dei contesti, della comunicazione fa sì che i segni possano avere e assumere caratteristiche anche molto diverse. Vediamone alcune.
(Foto di Claudio Carta Colombo)
Segno è un indizio, un sintomo medico, una traccia investigativa, un segnale del volto di una persona. Segno è una implicazione, la cui forma generale è q ⊃ p “se q allora p”, “se è giorno allora c’è luce”. Segno è un rapporto di equivalenza tra le parole, p=q, man=uomo=animale razionale. In questo senso, i segni linguistici sono una specie particolare del genere segno, assai più ampio rispetto al regno -pure sconfinato- delle parole. Segno è comunicazione, un gesto compiuto con l’intenzione di informare, convincere, spingere qualcuno ad agire. Segno è un emblema, il tricolore della bandiera, le croci sulle chiese cristiane, la svastica sui palazzi del Terzo Reich. Segno è un simbolo astratto, tutte le formule logiche, matematiche, chimiche, come E=mc2 . Segno è un simbolo che comunica intenzionalmente, con un atto di significazione esplicita, linguistica; tutti i segni sarebbero dunque dei simboli ma non tutti i simboli sono dei segni.
Segno è un’entità incorporea, come gli Stoici forse per primi compresero perfettamente. Il senso di un segno, infatti, non è la sua struttura fisica -si tratti di suoni, lettere, colori, forme geometriche- ma è il contenuto concettuale che viene espresso attraverso quella struttura materiale. Lo spazio del segno è dunque la mente. Anche per questo semiotica, filosofia della mente e filosofia del linguaggio non sono di fatto separabili tra di loro e dal più ampio cerchio della prassi, dentro il quale soltanto ogni segno -di qualunque tipo e natura esso sia- acquista e plasma la sua identità di oggetto comunicativo. Non è possibile, infatti, comprendere un segno al di fuori del contesto rappresentato dalle forme quotidiane di vita, dalle aspettative sui comportamenti, dalle visioni del mondo dentro le quali i segni in generale e le parole in particolare germinano.
Segno è pertanto un complesso processo di interpretazione: «qualcosa è segno solo perché viene interpretato come segno di qualcosa da qualche interprete»4. Condizione di un segno, infatti, non è soltanto lo stare al posto di qualcos’altro, indicandolo, ma anche l’offrire una o più possibili interpretazioni di ciò al posto del quale il segno sta.
La profonda relazione che intercorre tra significanti materiali, significati concettuali ed ermeneutica dei contesti è ben espressa, ad esempio, dalla parola inglese bachelor, con la quale vengono indicate entità assai diverse come il paggio di un cavaliere, una foca che non si accoppia durante la stagione degli amori, un maschio adulto e celibe, un laureato di primo livello. «Jakobson ha suggerito che un unico nucleo semantico profondo costituisca la base della apparente omonomicità di /bachelor/5: si tratta di quattro casi in cui il soggetto non è arrivato al compimento del proprio curriculum, sociale o biologico che sia»6.
Tutto appare ed è semplice e insieme complesso nel mondo dei segni. Un mondo al quale tanti fra i maggiori filosofi hanno dato contributi decisivi, da Platone e Aristotele ad Agostino, De Saussure, Peirce. Pervasività, varietà e universalità del segno sono state, infatti, da sempre oggetto del discorso filosofico. Platone indaga le relazioni tra il referente (iperuranio), l’imitazione (gli enti), i concetti che riassumono gli enti e le parole che li esprimono. Per i neoplatonici, poi, è l’intero cosmo a costituirsi in forma di segno, in teofania. Traducendo come sempre la metafisica del maestro in discorso tecnico su ciò che appare, Aristotele distingue tra onoma, il segno-nome che significa qualcosa; rema, un segno al quale si aggiunge un fondamentale riferimento temporale; logos, segno complesso e discorso significativo. Quindi /Mario/ è onoma; /Mario è arrivato e sta lavorando/ è rema; la descrizione del viaggio di Mario è logos. Gli Stoici individuano a loro volta il semainon come segno fisico (linguistico o di altra natura che sia); il semainomenon, la parte immateriale del segno, il suo significato concettuale; il pragma e cioè l’oggetto-referente al quale il semainon si riferisce, che può essere un ente fisico ma anche un evento o un processo. Lo schema è dunque: significante-significato-referente e spiega la compresenza nel segno di una forma-significante e di un contenuto-significato, inseparabili come due facce della stessa moneta. I filosofi antichi e quelli medioevali sanno anche che tra le parole e le cose si pone il concetto. Per Ockham la parola rimanda non alle cose direttamente ma ai loro concetti-significati, i quali a loro volta diventano dei significanti il cui significato-referente sono soltanto le cose singole.
Con Locke la semiotica inizia ad acquistare un proprio statuto autonomo, oltre che il nome che la indica. La svolta fondamentale è costituita naturalmente da Peirce, dalla sua stupefacente e articolata costruzione estremamente tecnica e insieme pansemiotica, all’incrocio tra pragmatismo e platonismo. «Peirce, per il quale il segno intratteneva dei rapporti precisi col proprio oggetto, da questo punto di vista distingueva Indici, Icone e Simboli: Indice è un segno che ha una connessione fisica con l’oggetto che indica (…) L’Icona è un segno che rimanda al suo oggetto in virtù di una somiglianza (…) Il Simbolo è infine un segno arbitrario, il cui rapporto con l’oggetto è definito da una legge: l’esempio più appropriato il segno linguistico»7. In diverse circostanze, ovviamente, un segno sarà un’icona, un indice o un simbolo. Interessante è che secondo Peirce un’icona esiste solo nella coscienza; ne segue che una fotografia, ad esempio, non è icona se non in senso metaforico, in senso proprio l’icona è l’immagine mentale che la fotografia fa nascere in chi la guarda.
Importante è anche la distinzione posta da Morris fra le tre dimensioni del segno: semantica, sintattica e pragmatica; il segno significa in un tessuto di relazioni e regole combinatorie inserite in un mondo più ampio di azioni ed eventi. Buyssens riprende la prospettiva aristotelica e distingue i segni rispetto ai semi, atomistici e puramente significanti i primi, unità complesse dotate di significato i secondi. Una distinzione che era presente anche in Hobbes e che la logica contemporanea esprime come differenza tra i singoli termini, che indicano o denotano, e gli enunciati che asseriscono; soltanto questi ultimi possono dunque risultare veri o falsi.
Denotazione e connotazione si riferiscono anche e rispettivamente al referente di un segno -sia esso un ente fisico o una classe di oggetti- e ai vari sensi che esso può invece assumere. Frege propone lo schema Segno-Sinn-Bedeutung, dove il Bedeutung-riferimento è ciò a cui il segno si riferisce (una città sul Baltico), il Sinn-senso è il modo in cui il riferimento viene inteso (Leningrado o San Pietroburgo, che non significano -appunto- la stessa cosa). Il riferimento è dunque l’estensione del segno (denotazione), il senso costituisce la sua intensione (connotazione).
Le Ricerche logiche di Husserl -in particolare la prima, la quarta e la sesta- sostengono una posizione radicale, che intende «lo stesso significato percettivo come un risultato di processi semiotici»8, le percezioni come dei costrutti, la conoscenza come una sintesi attiva che trasforma il dato (Gegenstand) in oggetto (Objekt)9.. In Merleau-Ponty il corpo stesso si fa segno, diventa un’espressività donatrice di senso. Sui rapporti tra pensiero e linguaggio, Roland Barthes ritiene giustamente che il linguaggio sia la forma stessa del pensare, che un pensiero non linguistico non si possa dare.
In ogni caso, è chiaro che la complessità della semiotica è tale da tenere lontano ogni riduzionismo logicistico. La logica formale, infatti, «si applica a linguaggi appunto formalizzati e assolutamente non equivoci e entra in crisi quando vuol farsi logica dei linguaggi naturali, che sono invece il luogo dell’equivocità, della polisemia, della sfumatura e dell’ambiguità»10. Il neopositivismo presenta lo stesso limite, giudicando «come strumento accreditato di comunicazione quell’uso di segni assolutamente univoci che si verifica così di rado nella vita umana e solo nel chiuso dei laboratori, mentre veniva discreditato il discorso quotidiano, il discorso della politica, dell’affettività, della persuasione, dell’opinione che non può essere ridotto ai ferrei parametri della verifica fisicalistica»11.
La ricchezza della semiotica è data anche dal fatto che la creazione e lo scambio di segni costituiscono un ciclo senza fine, sono la vita stessa della comunicazione umana. Il processo fonte-emittente-canale-messaggio-destinatario richiede non soltanto la comunicazione di una serie di segnali che in quanto tali possono essere puro significante (flatus vocis) ma di una struttura semantica, un codice, che renda quei segni parte di un mondo condiviso e li trasformi immediatamente in prassi.
Peirce comprese che la ricchezza del ragionare umano non può essere racchiusa nelle sole strade dell’induzione e della deduzione e propose di chiamare abduzione il necessario legame di ogni inferenza con il contesto di enti ed eventi nel quale essa si inserisce. Le cosiddette deduzioni di Sherlock Holmes sono in realtà delle abduzioni poiché collegano ogni indizio, traccia, segno a un contesto semantico più generale e olistico dentro cui la comprensione di ogni singola parte acquista fecondità euristica. E fu ancora Peirce ad aver espresso nel modo più radicale e vero la natura semantica del corpomente che siamo: «sistema di sistemi di segni. Anche quando crede di parlare, l’uomo è parlato dalle regole dei segni che usa»12. Un’affermazione, quest’ultima, condivisa da Heidegger, per il quale il linguaggio è «la casa dell’essere, abitando la quale l’uomo e-siste, appartenendo alla verità dell’essere e custodendola»13. La natura più profonda del segno consiste in questo suo legame con la verità molteplice del mondo, nel suo saperla dire, indicare, custodire.
Note
1 C.S. Peirce, Collected Papers [1931], 2.228
2 C.W. Morris, Lineamenti di una teoria dei segni [1938], trad. di a cura di F. Rossi-Landi, Paravia, Torino 1955, p. 31
3 C.S. Peirce, Collected Papers, cit., 5.314
4 C.W. Morris, Lineamenti di una teoria dei segni, cit., p. 31
5 In semiotica la parola oggetto del discorso si pone tra i segni / /
6 U. Eco, Segno e inferenza, Einaudi, Torino 1997, p. 11
7 Id. Segno, Enciclopedia Filosofica ISEDI, Milano 1973, p. 51
9 Cfr. Lezioni sulla sintesi attiva, in «Vita pensata», n. 2 – agosto 2010, pp. 54-55 .
12 C.S. Peirce, Semiotica. I fondamenti della semiotica cognitiva, trad. di M.A. Bonfantini, L. Grassi, R. Grazia, Einaudi 1980, p. 84
13 M. Heidegger, Segnavia (1967), trad. di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, p. 287. Sul tema del segno, si veda anche Ferdinand de Saussure, in «Vita pensata», n. 1 – luglio 2010, pp. 9-11
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