Francesca Woodman

Di: agb & gr
1 Novembre 2010

Parti del corpo che però rimangono sempre colmi della vitalità dell’intero, del dinamismo che assicura la vita anche quando essa è pregna della tristezza densa e antica che le immagini di Francesca Woodman sanno spesso evocare. Una tristezza classica, che affonda nella statuaria greca ma che questa giovanissima artista (1958-1981) seppe ricreare in forme che qualcosa devono, certo, a Man Ray o a Luxardo ma che sono assolutamente originali, sia nella ripresa della tradizione dell’autoritratto sia nella sapienza geometrica dei risultati, anche per l’ironia che trapela, segno per cogliere la finitudine del reale con il necessario distacco. Ed è lei che si fa oggetto fotografato –altro da sé- per ritrovare l’altro -l’estraneo- per scendere nel fondo della differenza e scoprire l’unità che libera gli opposti dalla loro fissazione.

Per prima cosa si dovrà rimuovere da subito il sospetto che l’autoreferenzialità implichi un atteggiamento narcisista e sterile. L’autoritratto, e in questo Francesca si pone nel solco della tradizione artistica occidentale, è indagine su di sé, approssimazione alla conoscenza del proprio io destinata a non trovare risposte ultime1.

Le immagini sono quasi tutte scattate in interni, in angoli di stanze vuote alle quali Woodman affida il proprio corpo e spesso la propria nudità. Un corpo che si fa una cosa sola con le pareti, con la plastica che l’avvolge, con le sedie e i pavimenti sul quale poggia. Luoghi che diventano gabbie -alla lettera- ma che poi si aprono a esterni di grande potenza, dove la figura di Francesca sembra assorbita dalle radici di alberi secolari, dalla terra, dal mare, o diventata radice, terra, mare. È cosa tra le cose, la Woodman, scompare per illuminare i dettagli e tra questi se stessa. Non dice, indica agli altri mentre lei si fa spettatore di un sé trasformato che assurge a Persona, a maschera, mentre lei «tattilizza e incarna lo spazio, costruendo un proprio mondo inquieto e rinserrandolo fotograficamente sulla naturalità del proprio corpo»2.

Il volto appare di rado, mentre in una tra le serie più efficaci -dal titolo Face– il pube è coperto da specchi, maschere, vetri, che sembrano eludere l’intento originario di esporre o che celano perché la verità ama nascondersi: «Più il corpo della donna si concede, maggiore è il silenzio che lo circonda»3. A volte l’artista necessita di indirizzare lo sguardo di chi osserva dall’immagine al pensiero che ha guidato lo scatto e così scrive didascalie più lunghe che non forniscono soltanto una prima interpretazione ma sono monito per andare oltre, per superare i confini imposti dall’immagine stessa. Un’ermeneutica senza fine che pare delimitata dal testo che invece attiva l’io che osserva anche se verso la direzione voluta dalla Woodman. La profondità che ricerca nella superficie delle cose e del suo corpo è occhio che si schiude a innumerevoli costruzioni con distacco ironico. Nella fotografia forse più cosmica ed emblematica l’artista raffigura se stessa appesa a uno stipite, in una forma che non può non richiamare la crocifissione di ognuno di noi al legno della solitudine. Persino quella sedia vuota che sta di fronte, con un indumento lasciato lì con noncuranza, rimanda all’idea di un abbandono che rende la solitudine dell’umano ancora più radicale.

Tra le studiose che per prime si occuparono dell’opera della Woodman, risalta il nome di Rosalind Krauss, grazie alla quale una ricca letteratura critica fiorì intorno all’artista4.

Accanto […] ai sostenitori di una lettura tutta incentrata sulla purezza malinconica e sul dramma interiore dell’artista in rapporto al senso tragico della vita –che si pretende di collegare retrospettivamente alla sua prematura scomparsa- vi sono coloro che percepiscono in molti lavori il sense of humour, e persino l’ironia; elemento ulteriore che, a mio avviso, non stempera assolutamente la lettura intensa dell’opera5.

La sua tragica fine impone spesso all’occhio di chi osserva quasi una mistificazione: la lettura delle sue foto a partire dal suicidio. E allora non si riesce più a leggervi la gioia, la bellezza disvelante dell’arte, la vita che pulsa, l’incontro giocoso di femminino e maschile, l’ironia. Eppure la Woodman ci ha insegnato che l’attimo fermato non fonda il reale, lo indica proponendo più vie da seguire, in una costruzione che non sta nelle cose ma dentro di noi; che non spiega il già avvenuto ma ciò che è di là da venire. Così l’attimo, in cui la giovane artista ha deciso di essere già morta, non può dirci nulla se non di ciò che avrebbe potuto essere, non di chi era. Il kairós non le sfuggiva quando si presentava gravido di senso al suo occhio mentale. Non le è sfuggito neanche quando si è fatto pregno di uno svuotamento radicale a tal punto che, osiamo sostenere, lo ha fotografato come lo viveva: privo di tutto persino della concretezza dell’immagine, del suo corpo cosmico, attraverso il quale ancora una volta scorreva, e costruito come sempre in un artificio che aveva lo scopo di farlo emergere proprio come soleva fare nelle sue foto visibili. Il suicidio così non diventa più strumento per comprendere l’intera produzione della Woodman, sarebbe ingiusto, si inserisce invece all’interno di quel modo di vivere capace di vedere fin nel fondo della vita, immergendosi nel lago di opposti che indagava: gioia/dolore; solitudine/compagnia; io/altro; luce/oscurità; vuoto/pienezza; identità/differenza; musica/silenzio; tempo/eternita; vita/morte. E lì scattare.

Note

1 M. Pierini, Dialogo a una voce, in Aa.Vv., Francesca Woodman, Silvana Editoriale, Milano 2010, pp. 13-14.
2 R. Caruso, Camera con vista, ivi, p. 127.
3 L. Fusi, «You cannot see me from where I look at myself». La maschera nell’opera di Francesca Woodman, ivi, p. 168.
4 Cfr. Isabel Tejeda, Ritratto dell’artista come adolescente. Francesca Woodman, strategie dell’impercettibile, ivi.
5 Ivi, pp. 60-61.


Francesca Woodman
www.mostrawoodman.it/
a cura di Marco Pierini e Isabel Tejeda
Milano – Palazzo della Ragione
16 luglio – 24 ottobre 2010

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