Una stagione al Piccolo
Non l’intera stagione, a dire il vero, ma una selezione degli spettacoli andati in scena nelle diverse sedi del Piccolo Teatro fra il 2009 e il 2010. È questo che vorrei proporre al lettore. Una scelta, quindi, del tutto personale ma che spero darà un’idea della varietà e della ricchezza che caratterizzano da sempre gli spettacoli messi in scena dallo storico teatro milanese. Si va, infatti, dagli autori classici -italiani e stranieri- ad alcuni dei testi più innovativi della drammaturgia europea contemporanea. Anche le scelte registiche sono le più diverse.
Molto tradizionale, ad esempio, la messa in scena del Birraio di Preston di Andrea Camilleri, per la regia di Giuseppe Dipasquale. La vicenda è ambientata in Sicilia, a Vigàta, nel 1874. Il prefetto Bortuzzi, toscano d’origine, ha scelto per l’inaugurazione del nuovo teatro un’opera dello sconosciuto e modesto Luigi Ricci –Il birraio di Preston– che nessuno in paese vuole. Vengono coinvolti in questa personale ossessione cittadini, parroci, mafiosi, soldati e poliziotti, funzionari, rivoluzionari mazziniani, sino a scoprire solo nelle ultime battute le ragioni di quella impopolare scelta. La riduzione dal romanzo rende il testo frammentario e in alcuni passaggi immotivato e confuso. Nonostante la critica abbastanza esplicita all’arbitrio del potere, il tono complessivo è da vaudeville. Alcune soluzioni registiche sono ben riuscite -ad esempio, gli incontri in chiesa della vedova Lo Russo e del suo spasimante, scanditi dal coro degli astanti in stile messa cantata- ma l’impressione è quella dell’ennesimo sfruttamento delle trovate di un autore forse sopravvalutato.
Un testo pur’esso “politico” e tra i più celebri del Novecento è Mistero Buffo di Dario Fo. Teatro dell’arte, improvvisazione continua, fedeltà al grammelot del maestro Fo ma anche declinazione originale dei contenuti e delle forme del testo di partenza. Anche questo è stata «l’umile versione pop» che Paolo Rossi (per la regia di Carolina De La Calle Casanova) ha allestito di Mistero Buffo, reinventandolo, mostrandone le forti radici medioevali-cristiane e insieme la perenne fecondità di critica a un esistente sempre più ingiusto, sempre più cupo. Si ride dall’inizio alla fine in un vero tripudio di comicità, si medita nei momenti drammatici, si comprende per quali ragioni il potere abbia così tanta paura dello scherzo, della satira, del gioco. Il giullare Rossi afferma che «oggi non sarà una risata che li seppellirà, ma un po’ di poesia li farà certo sentire un po’ più merde».
Un altro classico del Novecento è il magnifico Le sedie di Eugène Ionesco. Protagonisti il guardiano di uno sperduto faro e sua moglie. Sposati da quanto? Sessantacinque o settantacinque anni? In quale tempo ci si trova? E dove? Si sta nello spazio e nel tempo del senso cercato, costruito, inventato, smarrito. Ci si trova in un lucido e plausibile delirio che riempie la scena di sedie su sedie per gli ospiti innumerevoli e di ogni tipo che stanno arrivando al faro, convocati all’ascolto di un “messaggio all’umanità” che il guardiano ha redatto e che un oratore professionista è stato incaricato di pronunciare poiché quell’uomo è incapace di dire in pubblico una sola parola. Arriva persino l’Imperatore, qui nella forma di un totem che ricorda Il signore delle mosche. Il mare porta al faro questa folla frutto di un immenso desiderio di comunicare e il mare si riprende i due personaggi mentre il grande oratore è capace solo di incomprensibili, stentati, insensati suoni. Le sedie però lo ascoltano con la stessa compunzione di chi è obbediente perinde ac cadaver. Il regista Pietro Carriglio ha messo in scena questo capolavoro in forme lievi, sobrie, attente. I due attori -Galatea Ranzi e Nello Mascia- costruiscono con i loro gesti e con le parole l’intero spazio teatrale. L’ironia emerge da tale spazio/parola e la comunicazione mostra di essere la sostanza stessa dell’umano. «Non si può non comunicare». Mai la verità di questo assioma si fa evidente come quando il suono si trasforma in silenzio nell’istante stesso in cui viene emesso.
Lars Norén è un drammaturgo scandinavo che cerca di coniugare vite private e divenire storico. In Dettagli racconta di due coppie svedesi e delle loro esistenze durante il decennio 1989-1999, vissute tra viaggi, aeroporti, case editrici, ville toscane. I personaggi sono dei borghesi agiati e colti ma irrimediabilmente soli. Le due donne vanno alla ricerca di una maternità che dia senso alle loro vite, i due uomini oscillano tra indifferenza e avventure. Una follia sottile o conclamata li sfiora o li afferra. Sullo sfondo l’Europa e le sue guerre. Il tutto narrato e quasi fotografato in 30 scene, 30 dettagli di tempo. La regia di Carmelo Rifici e le scene di Guido Buganza disegnano quelli che Marc Augé ha definito “non luoghi”, spazi aperti e sempre uguali nei vari continenti. Gli interpreti (Giovanni Crippa, Elena Ghiaurov, Francesco Colella, Melania Giglio, Gianluigi Fogacci, Silvia Pernarella) sono molto bravi e dediti completamente ai loro non facili personaggi. E tuttavia il testo rimane troppo didascalico, senza riuscire a cogliere l’epicità tragica dei modelli -Strinberg, Bergman-, preferendo uno stile piatto, un grigiore uniforme.
Un testo che ha sempre da dire, che sempre si rinnova, che sempre coglie in modo radicale la colpa che gli umani sentono a esistere è l’Edipo re di Sofocle. La regia di Antonio Calienda e l’interpretazione di Franco Branciaroli si avvalgono delle cupe e semplici scenografie di Pier Paolo Bisleri. Ai lati due facciate di palazzi, al centro un lettino sul quale è sdraiato Edipo con davanti a sé un uomo seduto che prende appunti. Evidente il riferimento alla psicoanalisi. È il re che narra a se stesso il proprio delirio. Il coro, Creonte, Giocasta, Tiresia, i pastori che lo salvarono, sono ombre che emergono dal buio della psiche. Giocasta e Creonte non hanno neppure una voce autonoma, è Edipo/Branciaroli a parlare anche per loro. Molto bello, in particolare, il duetto tra il re e Tiresia -cuore della tragedia- nel quale le due voci appaiono davvero due, come se Tiresia raccontasse ciò che da sempre l’inconscio di Edipo sapeva. Nonostante il peso eccessivo della lettura psicoanalitica, il risultato di questa messa in scena è ancora greco. Gli attori sono tutti maschi; il dramma si colora spesso di grottesco poiché, come sosteneva Platone, «tutto ciò che è umano non è, in complesso, degno di essere preso molto sul serio» (Leggi, 803b); l’inesorabilità della Ananke vi appare subito, sin dai silenzi e dalle ombre iniziali. Il testo di Sofocle è davvero, in qualunque modo lo si interpreti, uno dei vertici del pensiero greco, e quindi del pensare umano.
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