Mere Christianity: conversando con C.S.Lewis

Di: Arianna Rotondo
2 Ottobre 2010

Dal 1942 al 1944 C.S.Lewis (1898-1963) tenne una serie di conversazioni radiofoniche sul cristianesimo e la sua essenza, o meglio, come dice lo stesso titolo del libro edito nel 1952 che le riunì tutte ampliate e riviste, “sul cristianesimo così com’è”, mere christianity1. L’intervento di Lewis sulla religione cristiana non appare legato a un intento didattico-pedagogico o catechetico, anzi, come dice l’Autore, mosso dal progetto di illustrare «le convinzioni che sono state comuni in ogni tempo a quasi tutti i cristiani» (p.12); di presentare «un cristianesimo consensuale, comune, centrale, un cristianesimo ‘puro e semplice’» (p.15). Per raggiungere quest’obiettivo l’Autore confessa nella Prefazione di aver sottoposto il suo manoscritto a quattro ecclesiastici, un anglicano, un cattolico, un metodista e un presbiteriano, chiedendo un loro parere: tutti si erano trovati d’accordo sulle questioni centrali, i collanti del cristianesimo, gli elementi coerenti della sua proposta. E proprio la volontà di sottolineare l’unità del pensiero cristiano diventa uno dei criteri fondamentali che guida Lewis nel condurre il suo discorso, attento ad evitare deliberatamente argomenti controversi, già oggetto di storiche diatribe il più delle volte rivelatesi senza via d’uscita o miseramente affogate dentro inutili particolarismi e arroganti pretese: «una delle cose su cui i cristiani dissentono è l’importanza dei loro dissensi» (p.14). E spesso persi all’interno di simili labirinti intricati di sofismi e astratte teorie si dimentica che essere cristiani, per chi vuole esserlo o si dichiara tale, è indossare un’identità in continua costruzione, sfuggente rispetto a ogni catalogazione specie di natura morale.

Il cristiano non è per antonomasia un uomo buono, anche se il termine ‘cristiano’ ha cessato nel corso del tempo di avere un valore descrittivo per assumerne uno esclusivamente elogiativo: questa parola «non ci dice più qualcosa di preciso su un oggetto, ma soltanto qual è, verso quell’oggetto, l’atteggiamento di chi parla» (p.18). Tuttavia essere cristiani significa molto di più; significa decidere di accettare una fede ben precisa piuttosto che un’altra. E fare esperienza della fede cristiana è possibile solo attraverso un percorso di conoscenza, che Lewis sintetizza attraverso una metafora spaziale: tutto inizia con l’attesa in un vestibolo su cui si aprono porte che danno in varie stanze. L’obiettivo è non restare sul vestibolo ma decidere in quale stanza entrare, per godere del suo calore, per sedersi e nutrirsi del benessere di quella particolare stanza, della propria stanza, quella che si è preferita ad altre. La lunga attesa ha reso felice la scelta, ha rivelato quale porta aprire, la porta vera e non quella più gradevole. Scegliere il credo cristiano, ad esempio, non può fondarsi su un apprezzamento delle sue forme di culto, sarebbe un approccio infantile, privo di un discernimento profondo e cosciente. Ogni scelta è infatti un nuovo inizio, e nel caso del cristianesimo un percorso alla continua ricerca della luce, mai pago di aver conquistato una delle stanze migliori della casa.

Con la sua consueta e disarmante semplicità, col procedere nitido delle sue argomentazioni, Lewis apre la sua riflessione sul cristianesimo parlando di una legge della natura umana, del giusto e dell’ingiusto, una legge reale che va ben oltre la semplice constatazione di comportamenti costanti e inevitabili: «la legge di gravità ci dice cosa fanno i sassi se li lasci cadere; ma la legge della natura umana ci dice cosa gli esseri umani dovrebbero fare e non fanno» (p.41). Si tratta di una legge morale che l’uomo non ha inventato ma a cui è inevitabilmente sottoposto. Il nostro essere umani ci consente come per nessun’altra realtà di osservare e comprendere come funzioni la natura dell’uomo. Tuttavia indagare l’uomo dall’esterno non mostra nulla al di là del suo comportamento, oltre ciò che fa, mentre è nella sua realtà interna che è osservabile l’azione di una legge morale, relativa a ciò che dovrebbe fare. Il mistero sull’origine di quest’ultima cui l’uomo mostra di soggiacere suggerisce a Lewis, come deduzione squisitamente logica, l’esistenza di “Qualcuno che diriga l’universo”, ma che soprattutto si manifesti in ogni uomo proprio come una legge morale che incita ad agire bene e che suscita sensi di colpa di fronte ad una cattiva azione. Non è questo, ancora, il Dio cristiano. Comunque l’esistenza di una legge morale è un indizio importante sull’esistenza di Qualcuno, insieme all’unità che caratterizza l’universo di sua creazione. “Dio, se assomiglia alla legge morale”, di cui lo consideriamo ideatore, non è tenero né buono; solo a un Dio-Persona si può riconoscere l’azione del perdono e della misericordia. In questa fase e con questi elementi, dice Lewis, possiamo ipotizzare solo un Dio-mente, una mente impersonale. Di fatto il cristianesimo che invoca il perdono e lo promette appare insulso a chi non contempla l’esigenza del perdono né tantomeno pensa di agire in modo tale da averne bisogno. Riconoscere l’esistenza della legge morale e Dio come suo sovrintendente e creatore significa confrontarsi con una bontà che l’uomo disattende eppure ricerca, che odia e nel contempo ama. Il cristianesimo si propone di spiegare come si è arrivati a questo paradosso, come «Dio sia una mente impersonale che presiede alla legge morale, e al tempo stesso una Persona. Dio si è fatto uomo per soddisfare le esigenze di questa legge morale, per salvare l’uomo dal biasimo di Dio» (p.57). La ricerca del bene ha secondo il cristianesimo una via segnata, accompagnata da un’intransigente speranza e da un insperato conforto. Per arrivare al conforto cristiano e comprenderlo occorre passare attraverso lo sgomento, dice Lewis: «nella religione, come in guerra e in tutto il resto, il conforto è l’unica cosa che non si può ottenere cercandola. Se cerchi la verità, alla fine potrai trovare conforto; se cerchi conforto, non avrai né conforto né verità, bensì soltanto illusioni lusinghiere e fantasie consolatrici all’inizio, e disperazione alla fine» (p.58).

In cosa crede un cristiano? Lewis risponde subito dicendo in cosa non deve credere un cristiano: in primo luogo che le altre religioni siano sbagliate, anzi deve pensare che tutte le religioni contengono e custodiscono «un barlume di verità» (p.61). Si dovrebbe operare preliminarmente una distinzione generale fra chi crede in Dio e chi no; per quanto riguarda i primi bisognerebbe capire in che Dio credono. Il cristianesimo è “una religione di lotta”, che crede in un Dio creatore del mondo, un mondo che si è traviato e che l’uomo è chiamato a raddrizzare. A tal proposito come spiegare l’esistenza del male? In quest’enigma trovano un appoggio preferenziale le argomentazioni dell’ateo, un banale riduzionista secondo Lewis, il cui pensiero è inutile perché troppo semplice, così come lo è quel «cristianesimo annacquato, secondo cui in cielo sta un Dio buono e tutto va per il meglio» (p.66). Ma la realtà è molto più complicata e bizzarra. Come spiegare allora le cose sensate e insensate dell’universo? Si potrebbe o attraverso la visione cristiana che vede nel mondo un bene perso di vista, ma di cui si conserva il ricordo, oppure attraverso quella dualistica che vede nel mondo un terreno di scontro infinito fra bene e male. La debolezza di quest’ultima visione sta nel riconoscimento del bene, che non può essere una preferenza dettata dal gusto individuale: dunque, dice Lewis, la scelta di uno dei due poteri implica un’adesione fondata sul riconoscimento del giusto, del bene. Va da sé che occorre dare come esistente quella legge morale che consente e impone tale scelta. Nel giudizio di questi due poteri la norma è Dio che stabilisce ciò che è accettabile e ciò che non lo è. Il male esiste come vizio del bene, è dunque posteriore ad esso, non è indipendente da esso, fa parte del Bene, perché ne contempla il contenuto che poi deve traviare. Il male è un “parassita” non un’entità originaria, che si è annidato nel mondo, rendendolo così “un territorio occupato dal nemico”: il cristianesimo pertanto è la storia dello ‘sbarco’ del vero re, per guidare tutti a una grande campagna di sabotaggio. Il vero re è per il cristiano il Dio fatto uomo, il Gesù della storia, il Cristo della fede. Egli ha rivelato il fondamento dell’amore fra Dio e le creature, insegnando “la felicità di essere liberamente”. Gli uomini di fatto sono stati progettati per essere felici di Lui e per Lui, e funzionare con Lui stesso: per questo, esclama Lewis, nella storia dell’umanità qualcosa è sempre andato storto! Gesù è stato un uomo scandaloso, soprattutto quando ha insegnato il perdono assoluto: «fatuità asinina, è la definizione più gentile che daremmo della sua condotta» (p.79). O si crede in lui riconoscendolo come il Figlio di Dio, o lo si liquida come un pazzo. Non ci sono mediazioni. L’atto di fede richiesto è totalizzante, non consente “scappatoie”. Ancor più se si considera che il fulcro della vicenda di Gesù e della fede cristiana sta nella sua crocifissione e resurrezione, necessarie alla salvezza umana. L’uomo è stato salvato da Cristo, l’uomo ribelle qual è, con la sua presunzione di appartenere a se stesso, chiamato a fare “marcia indietro”, a pentirsi. Ma solo una persona malvagia “ha bisogno di pentirsi”, mentre di fatto solo una buona è in grado di farlo perfettamente, sebbene non ne abbia bisogno. Questo è accaduto con Cristo. Lewis spiega il mistero dell’incarnazione come il progetto di Dio di mettere nell’uomo «un poco di Sé» (p.86). La redenzione è di conseguenza accettare l’aiuto di chi è più forte, in una morte dell’io che faccia emergere quel seme divino che risana e produce una radicale conversione, in sostanza una propagazione della vita divina.

La grande rivoluzione inaugurata dal cristianesimo, quella che ha affascinato Lewis abbattendo ogni sua riluttanza a farne parte, è inaugurata da Dio che si è fatto uomo per “trasformare delle creature in figli”, per produrre un nuovo tipo d’uomo. «Non è come insegnare a un cavallo a saltare sempre meglio, ma come trasformare un cavallo in una creatura alata» (p.259). Non è un cambiamento o un’evoluzione, sottolinea Lewis, si tratta di una Trasformazione, radicale. Traendo spunto dalla famosa affermazione secondo cui “un cardo non può produrre fichi” Lewis immagina l’animo umano come un terreno da dissodare e riseminare. La prima regola per attuare questa trasformazione è sfuggire ai compromessi, perché spesso la scelta più vile si rivela la più rischiosa: “per un uovo non sarà facile trasformarsi in uccello: ma gli sarebbe molto più difficile imparare a volare rimanendo un uovo”. Gli uomini, in questo caso, sono come quest’uovo: conviene che si schiudano o che vadano a male.

Il cristianesimo pretende tutto, chiedendo all’uomo di “indossare Cristo”, di “travestirsi” da figlio di Dio per poterci diventare sul serio. Il cristianesimo secondo Lewis sta tutto qui. Non esige un tormento dell’io per l’ansia di raggiungere una bontà prescritta, piuttosto una sua uccisione, in cambio del nuovo io offerto da Cristo: se stesso. Fino a che l’uomo prenderà l’io naturale come punto di partenza per il suo vivere, sostiene Lewis, compiacendo così la morale comune, rischierà il dissidio più profondo e lacerante: occorre rinunciare al tentativo di essere buoni, pena l’infelicità, perché più si è obbedienti alla coscienza più essa esigerà. La considerazione ironica e a tratti sarcastica fatta da Lewis in margine alla riflessione sulla facilità e sulle difficoltà della via cristiana, a proposito dell’ipocrisia che tende a falsificare l’autenticità del messaggio evangelico ammonisce così: «O smetterete di tentare di essere buoni, oppure diventerete una di quelle persone che, come si suol dire, ‘vivono per gli altri’: ma sempre scontente, brontolando, chiedendosi perché gli altri non ne tengano maggior conto, considerandosi sempre dei martiri. E una volta diventati così, sarete per chiunque debba vivere con voi un tormento molto peggiore che se foste rimasti francamente egoisti» (p.237).

Di certo le conversazioni sul cristianesimo di Lewis rappresentano una lettura stimolante, a tratti pungente, densa di sollecitazioni e originale. Sebbene in molti punti poco condivisibile, soprattutto in alcuni passaggi come quello sulla vita di coppia e il matrimonio in cui forse una tarda esperienza personale non è stata d’aiuto all’Autore, la riflessione di Lewis mostra come una dottrina abbia senso solo se diventa un’esperienza possibile, raccontata evitando parole ‘inutili’ e un buonismo utile solo a sedare le coscienze.

Note

1. Per quanto riguarda la traduzione italiana, cfr. C.S.Lewis, Il cristianesimo così com’è, Adelphi 1997, traduzione di Franco Salvatorelli. Da questo libro sono tratte le citazioni indicate nel testo col numero di pagina tra parentesi.

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