Vita pensata sul Danubio
Signorina” scriveva –press’a poco– Emanuel Mounier a una studentessa “essere filosofo significa non distinguere più se si pensa ciò che si vive o se si vive ciò che si pensa”. Per la fortuna dei professori di filosofia, il criterio definitorio suggerito dal teorico francese del ‘personalismo comunitario’ non ha avuto successo: e molti filosofi di professione possono, tranquillamente, continuare a ‘professare’ le idee altrui, evitando accuratamente di esporre le proprie – sino al punto, talora, di rinunziare ad averne. Ma la filosofia autentica, integrale -forse sarebbe meglio dire la filosofia tout court- esiliata da numerosi istituti universitari e da altrettante aule scolastiche, trova ospitalità negli interstizi delle svariate modalità di esercizio del pensiero umano: nelle opere cinematografiche come nelle sentenze giudiziarie, negli appunti di uno psicoterapeuta come nelle omelie di un pastore cristiano, nel diario di un adolescente al primo innamoramento come nel testamento di un anziano alle soglie del trapasso conclusivo. E, ovviamente, nella letteratura. Che si tratti di filosofia non esclude, anzi al contrario presuppone, la sua opinabilità, ma –pur se materia grezza- vale la fatica necessaria a lavorarla più che nel caso di prodotti ‘tipicamente’ filosofici, retoricamente e dialetticamente raffinati quanto rarefatti, al punto da rendere irriconoscibile da ‘cosa’ provengono e verso ‘cosa’ tendono.
Scrivo queste righe durante un pellegrinaggio fluviale sul Danubio, ospite -con la mia donna– di un battello che ci disloca da Vienna a Budapest. E mi vengono suggerite dalla compagnia, quasi obbligatoria, di Danubio di Claudio Magris, redatto nel 1986 ma che medito nell’elegante edizione rilegata della Garzanti del 2009. Il germanista, infatti, anche in quest’opera ribadisce, con discrezione (quasi en passant) ma con insistenza, ciò che quanti esercitiamo la filosofia per mestiere dovremmo evitare di dimenticare (o recuperare alla memoria): per parafrasare una nota formula kantiana, la vita senza riflessione è cieca, la riflessione senza vita è vuota. Ovviamente ciò che chiamo -genericamente– ‘riflessione’ in Magris è -più specificamente– talora “scienza”, talaltra “letteratura”. Qualche volta egli sembra opporre queste due modalità della facoltà intellettuale («Il problema di ogni scienza è quello di far combaciare i Mari del Sud, il loro blu immenso e frastagliato, con l’azzurra carta geografica dei Mari del Sud. Poco incline all’esattezza, il letterato preferisce divagare, moraleggiare sulle presunzioni dell’esattezza scientifica», p. 25); altre volte, però, sembra che ’letteratura’ designi qualsiasi tentativo di mettere per iscritto i propri pensieri. In questo senso più vasto e meno negativo «la letteratura si posa sul mondo come un emisfero poggiato su di un altro, due specchi che si riflettono a vicenda come dal barbiere» -tesi che si può condividere anche senza sposare le due righe che la seguono: «e si rimandano l’un l’altro l’inafferrabilità della vita o la nostra incapacità di afferrarla» (p. 353).
Il pensiero, senza vita, è vuoto
Un personaggio di Jean Paul, «contemporaneo di Goethe e Schiller e scrittore anticlassico» (p. 95), il rettore Florian Fälbel, viene assorbito totalmente dalla preparazione del programma di viaggio con i licenziandi. Egli è quasi la rappresentazione plastica del divorzio fra pensiero e realtà extra-mentale: «l’attenzione rivolta alla carta geografica impedisce di guardare i luoghi che si stanno attraversando e la lettura ad alta voce della descrizione di un edificio nel manuale del Büsching distoglie gli occhi dall’edificio stesso» (p. 99). Che il pensiero si vanifichi ogni qual volta cessa di rispecchiare la vita, in cui affondano le sue radici e da cui trae l’humus vitale, è sempre vero; ma lo è ancor di più quando vuole sondare altezza, larghezza e profondità del negativo: il “male assoluto” non esiste perché «anche l’azione più atroce è collegata da nessi storici -e cioè relativi– alla realtà complessiva. Ma nell’istante in cui lo si vive, il male viene sentito come una violenza assoluta e anche la riflessione, che cerca di capirne le cause e i motivi, non può dimenticare l’istante in cui lo si patisce con sofferenza totale, se non vuole snaturarsi in una conciliazione filistea, che smussa il dolore e impedisce l’autentica comprensione della tragedia» (p. 378).
L’ideologia, ovvero il pensiero come illusione
Se il pensiero ha bisogno di vita da pensare, anche la vita ha bisogno di pensiero per essere vita intensa, piena. Un modo errato, ma frequente, di trovare senso al fluire del divenire è l’ideologia. Magris lo nota a più riprese, per esempio a proposito dello scrittore marxista Andrea A. Lillin, «come molti rigidi custodi d’una verità immutabile […] era intimamente fragile e sensibile, un Werther stalinista, un’anima bella che cercava riparo alla propria vulnerabilità sentimentale nella corazza d’una fede incrollabile. Soffriva, come tutti, del mondo che muta, delle verità che passano, dei visi amati che si estraniano, dell’innumerevole perdersi delle cose; cercava di imporre all’indistinto e fugace brulichio dell’esistenza un volto immutabile, un ordine rassicurante» (p. 389). È soprattutto davanti al dolore provocato a esseri umani da parte di propri simili che scatta la tentazione di coprire, col velo dei nostri pregiudizi più nobili, la sconcertante scandalosità della storia: «una visita a un Lager fa apparire ridicola la fiducia nel grande albero dell’umanità, immaginato da Herder come un tutto armonioso. Probabilmente quell’immagine, e il senso di pienezza che ne deriva, è solo una nostra esigenza, sovrapposta al caos insensato degli eventi» (p. 34).
La vita, senza pensiero, è cieca
Tuttavia, il rischio di fare dell’attività intellettuale uno strumento di camuffamento (edulcorante) di ciò che è reale non può costituire motivo valido per rinunziare a pensare, a tentare di decifrare -senza pretesa di esaustività né di definitività– gli enigmi della natura e della storia. Se è vero, infatti, che –secondo la terminologia di Michelstaedter– «la ’rettorica’, ossia l’organizzazione del sapere, è l’enorme ingranaggio della cultura, il febbrile meccanismo dell’attività con il quale gli uomini incapaci di vivere riescono ad ingannarsi, a precludersi l’annientante consapevolezza della loro mancanza di vita e di valore, a non accorgersi del loro vuoto» (p. 72), non è meno vero che ogni poeta -anzi, in misure differenti, ogni intellettuale– è «il sottile e capzioso stratega che strappa […] momenti assoluti di significato al deserto dell’assenza e della temporalità» (p. 95). Non tutta la cultura, la riflessione di secondo grado, è retorica mistificante: «l’autentica scrittura nasce dal desiderio di rendersi ragione del prolisso impaccio di vivere» (p. 85). Ci sono varie modalità –direi prismatiche per evitare qualsiasi gerarchizzazione degli approcci- di questo “rendersi ragione”: la spiegazione dello scienziato, l’interpretazione dello storico, l’intuizione del poeta, il ragionamento del filosofo…Ovviamente ognuno di questi approcci ha prerogative proprie e corre rischi peculiari. Lo scienziato che descrive i fatti, che coglie -o costruisce– nessi fra gli eventi, ha il vantaggio di tenersi in prossimità dei fenomeni: è come se (alla stregua di Neweklowsky, autore di «un volume in tre tomi di 2164 pagine complessive, comprese le illustrazioni che pesa cinque chili e novecento grammi e che, come dice il titolo, affronta […] La navigazione e la fluitazione nel Danubio superiore», p. 66), «al pari di Quine, puntasse continuamente il dito dicendo ‘Danubio’ e questa ininterrotta ostensione scandisse la sua vita con una passione continuamente corrisposta» (p. 72). Ma proprio questa aderenza ai dati comporta il rischio di un’analisi sempre meno significativa -o rivelativa di senso– man mano che diventa più puntuale, più esatta. Viceversa, il filosofo, che osa il ‘passo indietro’ rispetto alla rassicurante sfera empirica, ha il pregio di mirare a una visione complessiva, a inserire la parte nel tutto -«sa che il mondo esiste per essere ordinato e affinché i suoi dispersi dettagli siano connessi dal pensiero»; ma corre il rischio di offrirsi «al riso degli dei», come sosteneva, a proposito di Hegel, «con faziosa acutezza Kierkegaard» (p.67).
Ci sono dei secoli, ossia delle culture, nei quali anche la genialità speculativa si espone facilmente al comico, nella sua pretesa di incasellare ogni fugace particolare dell’esistenza. Certe pagine tomiste o hegeliane non si sottraggono alla derisione, al pari di Heidegger. Questo lato comico non sminuisce certo la grandezza di Hegel o di Heidegger; ogni pensiero veramente grande deve aspirare alla totalità e questa tensione comporta sempre, nella sua grandezza, anche un elemento caricaturale, una punta di autoparodia (p. 68).
Una circolarità virtuosa
In qualsiasi delle sue manifestazioni lo si consideri (dalle scienze ‘dure’ alle speculazioni più ‘astratte’), il pensiero chiede di entrare in circolarità dialettica, virtuosa ma sempre incompiuta, fra vita e pensiero, fra spensieratezza vitale e vitalità pensosa. Proprio come suggeriva a Magris un pensatore danese del XIX secolo: «La vita, diceva Kierkegaard, può essere compresa solo guardando indietro, anche se dev’essere vissuta guardando avanti –ossia verso qualcosa che non esiste» (p. 43).
Al di là delle possibili esemplificazioni, è l’idea stessa di Danubio a rivelarsi istruttiva: intridere il proprio viaggio di pensiero al punto da non saper più distinguere, à la Mounier, se pensi e dunque viaggi o se viaggi e dunque pensi. Con l’effetto, più o meno intenzionale, di regalare ad altri -in futuro– la possibilità di compiere una navigazione sul Danubio che è, inseparabilmente, un viaggio attraverso il tempo e dentro la propria identità.
Signorina” scriveva –press’a poco– Emanuel Mounier a una studentessa “essere filosofo significa non distinguere più se si pensa ciò che si vive o se si vive ciò che si pensa”. Per la fortuna dei professori di filosofia, il criterio definitorio suggerito dal teorico francese del ‘personalismo comunitario’ non ha avuto successo: e molti filosofi di professione possono, tranquillamente, continuare a ‘professare’ le idee altrui, evitando accuratamente di esporre le proprie – sino al punto, talora, di rinunziare ad averne. Ma la filosofia autentica, integrale -forse sarebbe meglio dire la filosofia tout court- esiliata da numerosi istituti universitari e da altrettante aule scolastiche, trova ospitalità negli interstizi delle svariate modalità di esercizio del pensiero umano: nelle opere cinematografiche come nelle sentenze giudiziarie, negli appunti di uno psicoterapeuta come nelle omelie di un pastore cristiano, nel diario di un adolescente al primo innamoramento come nel testamento di un anziano alle soglie del trapasso conclusivo. E, ovviamente, nella letteratura. Che si tratti di filosofia non esclude, anzi al contrario presuppone, la sua opinabilità, ma –pur se materia grezza- vale la fatica necessaria a lavorarla più che nel caso di prodotti ‘tipicamente’ filosofici, retoricamente e dialetticamente raffinati quanto rarefatti, al punto da rendere irriconoscibile da ‘cosa’ provengono e verso ‘cosa’ tendono.
Scrivo queste righe durante un pellegrinaggio fluviale sul Danubio, ospite -con la mia donna– di un battello che ci disloca da Vienna a Budapest. E mi vengono suggerite dalla compagnia, quasi obbligatoria, di Danubio di Claudio Magris, redatto nel 1986 ma che medito nell’elegante edizione rilegata della Garzanti del 2009. Il germanista, infatti, anche in quest’opera ribadisce, con discrezione (quasi en passant) ma con insistenza, ciò che quanti esercitiamo la filosofia per mestiere dovremmo evitare di dimenticare (o recuperare alla memoria): per parafrasare una nota formula kantiana, la vita senza riflessione è cieca, la riflessione senza vita è vuota. Ovviamente ciò che chiamo -genericamente– ‘riflessione’ in Magris è -più specificamente– talora “scienza”, talaltra “letteratura”. Qualche volta egli sembra opporre queste due modalità della facoltà intellettuale («Il problema di ogni scienza è quello di far combaciare i Mari del Sud, il loro blu immenso e frastagliato, con l’azzurra carta geografica dei Mari del Sud. Poco incline all’esattezza, il letterato preferisce divagare, moraleggiare sulle presunzioni dell’esattezza scientifica», p. 25); altre volte, però, sembra che ’letteratura’ designi qualsiasi tentativo di mettere per iscritto i propri pensieri. In questo senso più vasto e meno negativo «la letteratura si posa sul mondo come un emisfero poggiato su di un altro, due specchi che si riflettono a vicenda come dal barbiere» -tesi che si può condividere anche senza sposare le due righe che la seguono: «e si rimandano l’un l’altro l’inafferrabilità della vita o la nostra incapacità di afferrarla» (p. 353).
Il pensiero, senza vita, è vuoto
Un personaggio di Jean Paul, «contemporaneo di Goethe e Schiller e scrittore anticlassico» (p. 95), il rettore Florian Fälbel, viene assorbito totalmente dalla preparazione del programma di viaggio con i licenziandi. Egli è quasi la rappresentazione plastica del divorzio fra pensiero e realtà extra-mentale: «l’attenzione rivolta alla carta geografica impedisce di guardare i luoghi che si stanno attraversando e la lettura ad alta voce della descrizione di un edificio nel manuale del Büsching distoglie gli occhi dall’edificio stesso» (p. 99). Che il pensiero si vanifichi ogni qual volta cessa di rispecchiare la vita, in cui affondano le sue radici e da cui trae l’humus vitale, è sempre vero; ma lo è ancor di più quando vuole sondare altezza, larghezza e profondità del negativo: il “male assoluto” non esiste perché «anche l’azione più atroce è collegata da nessi storici -e cioè relativi– alla realtà complessiva. Ma nell’istante in cui lo si vive, il male viene sentito come una violenza assoluta e anche la riflessione, che cerca di capirne le cause e i motivi, non può dimenticare l’istante in cui lo si patisce con sofferenza totale, se non vuole snaturarsi in una conciliazione filistea, che smussa il dolore e impedisce l’autentica comprensione della tragedia» (p. 378).
L’ideologia, ovvero il pensiero come illusione
Se il pensiero ha bisogno di vita da pensare, anche la vita ha bisogno di pensiero per essere vita intensa, piena. Un modo errato, ma frequente, di trovare senso al fluire del divenire è l’ideologia. Magris lo nota a più riprese, per esempio a proposito dello scrittore marxista Andrea A. Lillin, «come molti rigidi custodi d’una verità immutabile […] era intimamente fragile e sensibile, un Werther stalinista, un’anima bella che cercava riparo alla propria vulnerabilità sentimentale nella corazza d’una fede incrollabile. Soffriva, come tutti, del mondo che muta, delle verità che passano, dei visi amati che si estraniano, dell’innumerevole perdersi delle cose; cercava di imporre all’indistinto e fugace brulichio dell’esistenza un volto immutabile, un ordine rassicurante» (p. 389). È soprattutto davanti al dolore provocato a esseri umani da parte di propri simili che scatta la tentazione di coprire, col velo dei nostri pregiudizi più nobili, la sconcertante scandalosità della storia: «una visita a un Lager fa apparire ridicola la fiducia nel grande albero dell’umanità, immaginato da Herder come un tutto armonioso. Probabilmente quell’immagine, e il senso di pienezza che ne deriva, è solo una nostra esigenza, sovrapposta al caos insensato degli eventi» (p. 34).
La vita, senza pensiero, è cieca
Tuttavia, il rischio di fare dell’attività intellettuale uno strumento di camuffamento (edulcorante) di ciò che è reale non può costituire motivo valido per rinunziare a pensare, a tentare di decifrare -senza pretesa di esaustività né di definitività– gli enigmi della natura e della storia. Se è vero, infatti, che –secondo la terminologia di Michelstaedter– «la ’rettorica’, ossia l’organizzazione del sapere, è l’enorme ingranaggio della cultura, il febbrile meccanismo dell’attività con il quale gli uomini incapaci di vivere riescono ad ingannarsi, a precludersi l’annientante consapevolezza della loro mancanza di vita e di valore, a non accorgersi del loro vuoto» (p. 72), non è meno vero che ogni poeta -anzi, in misure differenti, ogni intellettuale– è «il sottile e capzioso stratega che strappa […] momenti assoluti di significato al deserto dell’assenza e della temporalità» (p. 95). Non tutta la cultura, la riflessione di secondo grado, è retorica mistificante: «l’autentica scrittura nasce dal desiderio di rendersi ragione del prolisso impaccio di vivere» (p. 85). Ci sono varie modalità –direi prismatiche per evitare qualsiasi gerarchizzazione degli approcci- di questo “rendersi ragione”: la spiegazione dello scienziato, l’interpretazione dello storico, l’intuizione del poeta, il ragionamento del filosofo…Ovviamente ognuno di questi approcci ha prerogative proprie e corre rischi peculiari. Lo scienziato che descrive i fatti, che coglie -o costruisce– nessi fra gli eventi, ha il vantaggio di tenersi in prossimità dei fenomeni: è come se (alla stregua di Neweklowsky, autore di «un volume in tre tomi di 2164 pagine complessive, comprese le illustrazioni che pesa cinque chili e novecento grammi e che, come dice il titolo, affronta […] La navigazione e la fluitazione nel Danubio superiore», p. 66), «al pari di Quine, puntasse continuamente il dito dicendo ‘Danubio’ e questa ininterrotta ostensione scandisse la sua vita con una passione continuamente corrisposta» (p. 72). Ma proprio questa aderenza ai dati comporta il rischio di un’analisi sempre meno significativa -o rivelativa di senso– man mano che diventa più puntuale, più esatta. Viceversa, il filosofo, che osa il ‘passo indietro’ rispetto alla rassicurante sfera empirica, ha il pregio di mirare a una visione complessiva, a inserire la parte nel tutto -«sa che il mondo esiste per essere ordinato e affinché i suoi dispersi dettagli siano connessi dal pensiero»; ma corre il rischio di offrirsi «al riso degli dei», come sosteneva, a proposito di Hegel, «con faziosa acutezza Kierkegaard» (p.67).
Ci sono dei secoli, ossia delle culture, nei quali anche la genialità speculativa si espone facilmente al comico, nella sua pretesa di incasellare ogni fugace particolare dell’esistenza. Certe pagine tomiste o hegeliane non si sottraggono alla derisione, al pari di Heidegger. Questo lato comico non sminuisce certo la grandezza di Hegel o di Heidegger; ogni pensiero veramente grande deve aspirare alla totalità e questa tensione comporta sempre, nella sua grandezza, anche un elemento caricaturale, una punta di autoparodia (p. 68).
Una circolarità virtuosa
In qualsiasi delle sue manifestazioni lo si consideri (dalle scienze ‘dure’ alle speculazioni più ‘astratte’), il pensiero chiede di entrare in circolarità dialettica, virtuosa ma sempre incompiuta, fra vita e pensiero, fra spensieratezza vitale e vitalità pensosa. Proprio come suggeriva a Magris un pensatore danese del XIX secolo: «La vita, diceva Kierkegaard, può essere compresa solo guardando indietro, anche se dev’essere vissuta guardando avanti –ossia verso qualcosa che non esiste» (p. 43).
Al di là delle possibili esemplificazioni, è l’idea stessa di Danubio a rivelarsi istruttiva: intridere il proprio viaggio di pensiero al punto da non saper più distinguere, à la Mounier, se pensi e dunque viaggi o se viaggi e dunque pensi. Con l’effetto, più o meno intenzionale, di regalare ad altri -in futuro– la possibilità di compiere una navigazione sul Danubio che è, inseparabilmente, un viaggio attraverso il tempo e dentro la propria identità.
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