Oltre i confini dell’Isola
Quando un uomo, da solo sul palcoscenico, riesce a gestire più di due ore di spettacolo, facendo ridere, riflettere, sognare e a volte anche commuovere, è chiaro che si ha davanti quello che Albert Camus definiva l’eroe dell’assurdo: colui che è in grado di vivere più vite possibili senza escatologiche illusioni. Il che non è una rinuncia o una mancanza, piuttosto una ricchezza, consistente nel voler vivere questo tempo “disteso”, che è proprio dell’essere umano, in tutta la sua profondità, senza nulla concedere al caduco. Così ogni istante diventa kairós, pregno del tempo che siamo. Gianfranco Jannuzzo, in Girgenti amore mio, fa di più: rimane ancorato alla sua vita e pur nonostante salpa i mari di un popolo intero. Non rappresenta se stesso, infatti, tranne qualche accenno alla Girgenti dei suoi genitori. La vita che porta in scena –la sua- è una cassa di risonanza attraverso cui passa quella di ogni agrigentino, di ogni italiano, nella parte che si può raccontare, in quanto abbiamo in comune con l’altro, in ciò che ci rende un popolo vivo. E anche se si tratta di un lungo monologo, in realtà arrivano alle orecchie le voci di tantissima gente, dalle varie personalità e persino dall’accento diverso, come se sul palco aumentassero gli attori secondo il desiderio del suo creatore: Jannuzzo. Ogni aspetto della sicilianità è esaltato in un gioco serio che accoglie limiti e follie con una risata aperta e intelligente. Girgenti, antico nome di Agrigento, è la sua città, ma diventa quella di ciascuno, anche se in modo personale. Si conceda, soltanto, che assai differente è l’emozione degli agrigentini nel mondo che si trovano ad assistere allo spettacolo. Divertiti, orgogliosi e compiaciuti, si vedono vivere a migliaia di chilometri di distanza, con l’anima ancora cucita a doppio filo alla terra pirandelliana, persino disposti a farsi scoprire dal vicino spettatore mentre applaudono ridendo di cuore con il volto coperto di lacrime. E perché? Perché Jannuzzo riprende ogni cosa della nostra terra, di questo territorio arido e munifico che ci ha dato i natali: l’acqua che non c’è e la lunga fila per riempire i bidoni alla fontana che deve fare, con lo sguardo mesto, chi vive da sempre nell’accettazione condividendo con l’altro la rassegnazione; la processione estiva per un santo nero che non è il patrono della città e che rappresenta un Dioniso da opporre ad Apollo, la follia all’armonia, il volto alla maschera, la ribellione all’imposizione, la benedizione del dio alla condanna delle istituzioni, la ricerca di un ordine proprio alla prescrizione di un ordine imposto; e ancora la bellezza delle donne, vestali della Cura per tutta la vita, capaci di essere, per il compagno, mogli, amanti, sorelle, amiche e figlie, pronte a rinunciare a sé per divenire eroine silenziose di una storia che le dimentica; lo strano rapporto con la morte e la particolarità di certe cerimonie funebri, in cui la necessità di rappresentare il dolore è ancora una volta un richiamo all’ordine -in tal caso affettivo- che permette ad alcuni ciò che ad altri non è consentito, che fa tanto pensare alle donne che in un altro tempo e in un altro luogo erano addette al pianto e al lamento; l’incanto dei paesaggi, che nel silenzio dei ruderi parlano di una storia intrisa di violenza e di individui cosmici di cui abbiamo ereditato la forza per sopportare l’insopportabile e dei quali abbiamo rinunciato alla potenza perché troppo abituati al ruolo di sudditi per ribellarci; l’ignoranza mostruosa, a un punto tale da sconfinare nella comicità, di piccoli mafiosetti che alimentano il sistema delinquenziale, vera linfa mortale di questa terra arsa dal Sole, troppo spesso dimentico che, nell’umana realtà, illuminare un territorio con tanta attenzione non glorifica ma uccide; e infine le caratteristiche soltanto nostre “nell’intero universo”, che fanno riconoscere il giurgintano non soltanto dal suono del dialetto, ma da sguardi e movenze e modi di esser-siciliano.
E poi la fuga oltre i confini dell’isola, perché “cu nesci arrinesci”, e l’incontro con altre culture, con altri dialetti, con altri modi di essere, con quanti, in un tempo ci si augura ormai concluso, pur continuando a considerarti suddito vedevano in te l’invasore da combattere. E Jannuzzo oltrepassa lo stretto, come creta si plasma e diviene calabrese e lombardo e veneto e ligure; non più attore, ma simbolo d’unità nazionale. Non è, infatti, la lingua comune che accomuna, semmai la melodica vitalità di ogni dialetto che differenzia ciascuno e ciascuno riporta in quel luogo immaginifico che è l’Italia, la reale categoria che contiene tutte le particolarità irriducibili, come fosse una rete grandissima che fa di ogni italiano un nodo unico ed essenziale. È la nostra identità che Jannuzzo esalta e protegge, che non può essere fagocitata in un prototipo umano indistinto, che per quanto perfetto italiano rimarrebbe irreale. Uniti, sì, nella protezione del dialetto, che è orgoglio cittadino, legame col luogo, disagio dell’emigrato, fierezza della storia; uniti, sì, in questa camaleontica realtà che è la nostra Italia e che, tutta intera, scorre nel sangue giurgintano di Gianfranco Jannuzzo.
E nessuno dimentichi, però, che Girgenti amore mio, non sarebbe stata tale senza la grandezza di un altro agrigentino, Francesco Buzzurro, le cui musiche vibrano di emozione, forza e incanto, in un’armonia che da sola si fa portavoce dell’intero reale. Lo si è avvertito anche l’otto di Aprile di quest’anno quando Buzzurro le ha utilizzate come sottofondo di parte della cerimonia di intitolazione del foyer del teatro “Pirandello” di Agrigento -di cui Jannuzzo è direttore artistico- a Pippo Montalbano. Anche Jannuzzo vi ha partecipato commosso, assieme a una lista lunghissima di personaggi noti. Pippo Montalbano (1940-2009) era un artista di altissimo livello, eterno Liolà della Valle, maestro riconosciuto di attori e registi, fondatore della compagnia del Piccolo Teatro Pirandelliano, promotore della settimana pirandelliana al Caos -luogo natio del grande scrittore e drammaturgo- e fautore della riapertura del teatro agrigentino. Con lui, amico e collega, Jannuzzo condivideva “il grande amore per questa città”.
Girgenti è un nome che non c’è più di una città che invece c’è ancora e, dunque, molto più adatto a spiegare l’intensità della sua presenza dentro di me: Agrigento è un semplice punto tra le coordinate di una cartina geografica, Girgenti è l’incrocio obbligato per cui passa ogni mia emozione.
E prima di iniziare il monologo su Girgenti, tratto dallo spettacolo in quel periodo in tournée, Jannuzzo ha invitato tutti a immaginare che fosse proprio Pippo Montalbano a parlare. E ognuno ha compiuto il miracolo, perché rientrava nell’esser-possibile: un Montalbano redivivo si muoveva sul palco. E Jannuzzo aveva ragione, ognuna di quelle parole avrebbero potuto esser di Pippo e se non lo fossero state le avrebbe rappresentate con l’intensità emotiva di chi crede nella fedeltà alla terra, con lo spessore artistico che contraddistingueva persino l’uomo Montalbano, con l’umiltà propria dei grandi quando la loro genialità li mette a disagio.
Mi si consenta un accenno personale, perché sono agrigentina, perché conoscevo Montalbano, perché ascolto Buzzurro, perché “sento” Jannuzzo.
Nel 1990, mentre mi trovavo in Inghilterra, dove vivevo già da un anno, andai a vedere Nuovo Cinema Paradiso. La saletta di Margate era colma, ma nessuno oltre me capiva quella lingua e sapeva leggere dentro quei paesaggi, non soltanto perché i presenti erano certamente distratti dai sottotitoli, ma perché solo il silenzio spiega i qualia non propri: -Cosa prova un siciliano nel mondo vedendo rappresentata la propria sicilianità?-. Gli altri potevano cogliere la bellezza delle scene e della sceneggiatura, delle musiche e della regia. Io andavo oltre. È certo. Quest’anno, a Genova, ho riprovato la stessa emozione, non con Baaria, però, come ho già detto in un altro contesto, perché non è una questione di semplice orgoglio nativo. È successo con Girgenti amore mio. Cos’abbia in più questo spettacolo, in ogni sua scena o monologo o musica, è semplice a dirsi: è vero e rende vero chi lo rappresenta e fa sentire vero chi lo guarda. Non si tratta della verità unica e irraggiungibile che fagocita le differenze, ma del ‘vero’, che dà concretezza all’intangibile e parola all’ineffabile e immagine all’invisibile e realtà all’impossibile. Per questo, persino l’otto di Aprile ad Agrigento, anche soltanto con il monologo su Girgenti, sospinto dalle note di Buzzurro, Jannuzzo è divenuto Montalbano e Montalbano ogni agrigentino e ogni agrigentino ciascun italiano. Un applauso ideale va anche alla regia di Pino Quartullo, incisiva nella sua semplicità e nella rinuncia a divenire ingombrante e invasiva, e ad Angelo Callipo, coautore del testo teatrale, riuscitissimo.
Teatro Politeama – Genova
Febbraio 2010 |
Girgenti amore mio… |
Di G. Jannuzzo e A. Callipo |
Regia di Pino Quartullo |
Scene di Salvo Manciagli |
Musiche di Francesco Buzzurro |
Costumi di Silvia Morucci |
Produzione Girgenti Spettacoli |
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