La filosofia come genere letterario
Giorgio Colli indaga nel testo La nascita della filosofia il mistero che ne avvolge le origini, con una logica discorsiva che non lascia scampo al dubbio. Capovolge la ricerca, rendendo l’ovvio, a cui siamo legati tradizionalmente, un’erma bifronte il cui altro volto risulta parimenti plausibile. La filosofia viene intesa, sì, come “amore della sapienza”, tendenza verso quanto non si possiede ancora, ma non è una sapienza di là da venire, piuttosto già avvenuta e già tramontata.
«Amore della sapienza non significava infatti, per Platone, aspirazione a qualcosa di mai raggiunto, bensì tendenza a recuperare quello che già era stato realizzato e vissuto» (p. 111).
Dunque, per rintracciare le origini della filosofia bisogna tuffarsi in un passato lontanissimo e ripercorrere l’età dei sapienti, la sua nascita, la sua evoluzione e la sua decadenza che segnò l’inizio della filosofia, sostiene Colli, come genere letterario. Il quadro che traccia ha il suo punto di inizio nella mantica, poi nell’enigma, quindi nella dialettica, infine nella retorica, che segna, con Gorgia, la decadenza dell’età che precede la nascita della filosofia.
A questa prospettiva, già di per sé radicale nell’analisi che la giustifica fondandola, è da aggiungere un certo distacco di Colli, per quanto concerne la figura di Socrate e la dualità Apollo-Dioniso, dal filosofo di cui è stato uno dei maggiori studiosi: Friedrich Nietzsche. Colli ritiene infatti che, di Socrate, Nietzsche non colga l’inquadramento geometrico all’interno di un’età il cui declino era iniziato molto prima.
Ma bisogna obiettargli [a Nietzsche, ndr] che tale decadenza aveva già preso inizio prima di Socrate, e inoltre che costui è un decadente non a causa della sua dialettica, ma al contrario perché nella sua dialettica l’elemento morale va affermandosi a scapito di quello puramente teoretico. Socrate è invece ancora sapiente per la sua vita, per il suo atteggiamento di fronte alla conoscenza. (pp. 113-114)
Una fragilità di giudizio che Colli individua anche nella figura di Apollo. A Nietzsche sarebbe sfuggita la doppiezza del dio e la comune matrice con Dioniso nella mania, nella follia da cui origina la sapienza.
«La follia è la matrice della sapienza» (p.21).
Andiamo per ordine, però. La ricerca delle origini della sapienza greca ci porta a Delfi, luogo per eccellenza della mantica. Contrariamente a quanto pensa Nietzsche, per Eraclito Apollo non è il dio della misura e dell’armonia; egli afferma infatti che la Pizia parla, attraverso il dio, “con bocca folle” dicendo cose “senza riso”. La divinazione è il modo attraverso cui Apollo si manifesta agli uomini; l’oscurità e la terribilità del responso sono il segno della distanza tra l’umano e il divino, poiché Delfi rappresenta il luogo in cui la parola enigmatica mostra la sua provenienza da un altrove sconosciuto. Il divinatore non comprende ciò che dice in stato di mania. Affinché la parola possa giungere comprensibile a orecchie umane è necessario un interprete, un profeta, dirà Platone. È la sapienza, dunque, che salva dalla tela imbastita dal dio. Se Apollo seduce l’uomo nell’enigma, Dioniso lo impegola nel Labirinto, in un tempo ancora anteriore, da cui non è più il sapiente a salvarsi, ma l’eroe. Cinque secoli prima che abbia inizio il culto di Apollo, infatti, fa la sua comparsa, in ambito minoico-miceneo, il culto di Dioniso. Emerge nel mito cretese, che coinvolge Dioniso, Arianna -sua sposa-, Pasifae, Minosse, Teseo e Dedalo, la polarità con Apollo. Il costruttore e inventore del labirinto, in cui viene relegato il Minotauro, è Dedalo, la cui sapienza rimanda all’uomo apollineo, una conoscenza però che è al servizio di Dioniso, poiché in quel Minotauro è proprio il dio a celarsi. E Dioniso si mostra senza pietà per l’uomo, non redime e non libera, mentre Apollo aiuta Teseo. Questi, vittorioso sul Minotauro, riesce a non rimanere imprigionato nel Labirinto grazie al gomitolo di lana che ancora una volta Dedalo aveva ideato e regalato ad Arianna.
«Il simbolo che salva l’uomo è il filo del ‘logos’, della necessità razionale» (p. 31).
La contrapposizione, evidente nel mito cretese, tra Apollo e Dioniso –l’uno benigno con gli uomini, l’altro crudele- si attenua nei secoli, per tramite di Orfeo, cantore di Dioniso; il dio che Orfeo rinnega dopo la perdita dell’amata Euridice, divenendo devoto di Apollo. Dioniso lo fa sbranare dalle Menadi per punirlo.
«Il dilaniamento di Orfeo allude a questa duplicità interiore, all’anima del poeta, del sapiente, posseduta e straziata dai due dèi» (p. 35).
Ecco dunque Apollo che incontra Dioniso. La loro radice comune si manifesta nel culto delfico, dove si rintraccia l’origine della sapienza nella follia, nella crudeltà labirintica dell’enigma. Diverso è invece l’uomo che riesce a salvarsi dalle trame del dio: a Delfi è il sapiente.
Nella divinazione l’uomo mantico è il tramite attraverso cui il dio parla all’uomo, ma non lui interpreta, piuttosto il “profeta” che scioglie l’enigma. Soltanto l’uomo invasato può essere ispirato dal dio e così divinare, ma non può comprendere ciò che dice, essendo per l’appunto dissennato. L’enigmaticità del responso manifesta lo iato tra umano e divino. Eppure l’enigma, che nasce nel sacro, comincia già da subito a separarsene, fino alla completa rimozione, che segna l’inizio di una nuova categoria che lo contraddistinguerà: l’agonismo. L’iniziale allontanamento dal divino è visibile nel mito tebano della Sfinge, in cui i contendenti sono un dio e un uomo, ma «l’arma decisiva è la sapienza» (p. 50). In età arcaica la separazione diventa più evidente. Strabone ci racconta della contesa tra Calcante e Mopso, ma sono ancora due divinatori, ancora legati alla sfera del sacro e ancora la posta in palio è la vita stessa. Il passaggio dalla sfera divina a quella umana è rintracciabile anche nella tradizione legata alla morte di Omero riferita da Aristotele. Omero, appena approdato nell’isola di Io, terra madre secondo l’oracolo, incontra due pescatori, intenti a spidocchiarsi. Alla domanda del sapiente su cosa abbiano preso, i due rispondono affermando che ciò che hanno preso lo hanno lasciato e ciò che non hanno preso se lo portano addosso. Omero non riesce a risolvere l’enigma e dal dolore muore, proprio come era stato predetto dall’oracolo, perché «per il sapiente l’enigma è una sfida mortale. […] In questo quadro è chiaro che ogni sfondo religioso è caduto: l’enigma è sempre un pericolo estremo, ma il suo terreno è soltanto un agonismo umano» (p. 62). Si evince però la natura contraddittoria con cui si presenta l’enigma, messa in evidenza da Eraclito. Ciò che è manifesto nell’enigma è sempre una coppia di contrari, mentre il celato che ne costituisce lo sfondo e che ne rappresenta l’unità è espressione del divino, del trascendente. È forse per questo che Eraclito narra della morte di Omero quasi con disprezzo, poiché “il sapiente è colui che non si lascia ingannare”, che riesce a scoprire il fondamento ultimo nascosto dai corni ingannanti della contraddizione. In questo scenario, che vede adesso l’enigma –prima espressione della mantica, del sacro, della sfida divina- come categoria dell’umano, dell’agonismo, della contraddizione, nasce la dialettica, che fa propri questi caratteri abbandonando del tutto la tragicità della posta in palio: non più la vita dei contendenti ma la palma della sapienza. E che la matrice della dialettica sia proprio l’enigma si evince persino dall’uso del verbo probàllein, da cui il sostantivo próblema -secondo le fonti nome dell’enigma- che in Platone significa alternativamente “proporre un enigma” o “proporre una domanda dialettica”. È Aristotele che, nei Topici, spiega la tecnica della dialettica.
L’interrogante propone una domanda in forma alternativa, presentando cioè i due corni di una contraddizione. Il rispondente fa suo uno dei due corni, ossia afferma con la sua risposta che questo è vero, fa una scelta. […] Il compito dell’interrogante è dimostrare, dedurre la proposizione che contraddice la tesi. (p. 75)
Nel tempo la dialettica diventa una pratica capace di “sceverare le astrazioni più evanescenti pensate dall’uomo (Ibidem). L’eccesso di agonismo finisce per rendere inconsistente ogni affermazione, al punto che lo stesso principio del terzo escluso viene privato di ogni certezza. Se infatti lo scopo è dimostrare la falsità della tesi, e ciò dipende soltanto dall’arguzia dell’interrogante, allora la tesi opposta che a conclusione della contesa appare vera -e che per il principio del terzo escluso deve necessariamente essere vera- potrebbe in realtà mostrarsi falsa grazie all’abilità dello stesso interrogante. Ne consegue che «qualsiasi giudizio, nella cui verità l’uomo creda, può essere confutato» (p. 86). È Parmenide che frena la deriva della dialettica, secondo Colli. La dialettica infatti non nasce con Zenone ma è presente ancor prima della sapienza eleatica. La manifesta contraddizione che sta al cuore della domanda dialettica viene universalizzata da Parmenide in “è o non è”: «formulazione dell’enigma supremo» (p. 88). Secondo la legislazione imposta da Parmenide bisogna rispondere “è”. Un atteggiamento, quello di Parmenide, benigno nei confronti dell’uomo, poiché la strada del non è conduce ad argomentazioni nichilistiche. Zenone, che pur difende la posizione del maestro, al contempo sembra violarne i divieti. La dialettica subisce un ulteriore sviluppo, cessa «di essere una tecnica agonistica per diventare una teoria generale del ‘logos’» (pp. 90-91).
Le precedenti generazioni di dialettici avevano condotto, si può supporre, un’opera di demolizione particolare, casuale, legata alla contingenza di singoli interlocutori dialettici e di singoli problemi teoretici, verosimilmente connessi alla sfera pratica e politica. Zenone generalizzò quest’indagine, la estese a tutti quegli oggetti sensibili e astratti. (p. 90)
Si raggiunge così un nichilismo teoretico che rappresenta il vertice della razionalità greca, tanto da indurre lo stesso Aristotele ad ammettere che le aporie zenoniane si possono superare soltanto “per accidente” cioè facendo appello a ciò che accade. L’ulteriore sviluppo della dialettica si ha con Gorgia, in cui è assente qualsiasi richiamo al divino. Il sofista segna la fine dell’età dei sapienti «di coloro che avevano messo in comunicazione gli dèi con gli uomini” e “il linguaggio dialettico entra in ambito pubblico» (p. 100).
«Nasce così la retorica, con la volgarizzazione del primitivo linguaggio dialettico» (p. 101).
I due contendenti sono ora un oratore e un pubblico di ascoltatori. La vittoria può essere soltanto del primo se persuade il secondo. La forma agonistica si indebolisce e compare un nuovo elemento fino a quel momento assente: la scrittura. La presenza della scrittura è un uso puramente tecnico, serve per memorizzare i discorsi. Un fatto accidentale dunque che avrà un effetto straordinario in quell’ulteriore genere letterario che sarebbe comparso di lì a poco: la filosofia. Ed è Platone a segnarne la nascita con il dialogo, inquadrandola attraverso la scrittura in un ambito retorico di matrice dialettica. Questo è forse il motivo per cui riesce a spuntarla contro l’altro concorrente che propone la stessa disciplina con la stessa finalità educativa, Isocrate, il quale però dimentica l’origine dialettica della retorica e trasforma i suoi temi in discorsi statici.
«La superiorità di Platone sta nell’avere assorbito nella propria creazione il filone dialettico, la tendenza teoretica, uno degli aspetti più originali della cultura greca» (p. 116).
A conclusione della disamina del testo di Colli, bisogna ricordare che molte sono state le letture “ardite” sulle origini della filosofia, non ultima quella di Gilbert Ryle che in Plato’s progress afferma che la filosofia è nata come evoluzione fortuita del dibattito elentico, dovuta a Platone, –inquadrato in una cultura sofistica- dapprima attore dei suoi dialoghi eristici, poi involontariamente filosofo. Non convince, però, la lettura ryleana, non soltanto per le congetture troppo radicali su Platone, la sua biografia, la cronologia dei dialoghi e il platonismo, ma anche per la fragilità delle argomentazioni proposte. Colli, invece, costruisce un testo fecondo e magnifico sia nella scrittura sia nella proposta di ricerca, con riferimenti rigorosi ed esatti, con valutazioni e implicazioni filologiche e storiche difficilmente contestabili, e di fronte alle quali è tutt’al più ammissibile un’accettazione non condivisa. E su questo ci si può soffermare, ravvisando nell’autore quasi la necessità, forse teoretica, di distaccarsi da un punto di riferimento costante nei suoi studi: Friedrich Nietzsche. Nei primi tre capitoli, Colli analizza la figura di Apollo, che pone all’origine dell’età dei sapienti, ma rintraccia tra le caratteristiche proprie del dio elementi dionisiaci che lo portano a valutare la contrapposizione nietzscheana tra Apollo e Dioniso se non infondata almeno parziale. Infatti, secondo Colli, se polarità c’era tra i due dèi la si deve ricercare nei miti anteriori al culto di Delfi, prima ancora dei misteri orfici, quando Apollo e Dioniso rappresentavano l’uno il dio benigno, l’altro il dio crudele. Un vero e proprio chiasmo tra la teoria colliana e quella nietzscheana. Nietzsche, infatti, sostiene che Apollo e Dioniso nascono fratelli, adelphoi, e solo nel tempo emergerebbero le differenze; Colli afferma esattamente il contrario. Come però dimenticare che proprio Nietzsche scrive che «Alla fine Apollo parla la lingua di Dioniso» (La nascita della tragedia in “Opere”, Adelphi, Milano 1964 e sgg, Vol III/1, p. 145)? Il pathos che spinge Colli a differenziarsi dal maestro è tale da far avvertire una certa difficoltà nell’esposizione argomentativa almeno dei primi due capitoli, che a tratti risultano contorti fino a rendere necessaria la rilettura per cogliere la logica concatenazione dell’idea sottesa. Non è un limite, però. Lo si è detto. Colli forse non aveva chiaro ciò che per noi è lapalissiano: non necessitava di affrancarsi da Nietzsche, perché Colli è Colli.
Giorgio Colli |
La nascita della filosofia |
Adelphi, Milano 200721 |
Piccola Biblioteca Adelphi |
Pagine 116 |
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