Arnold Gehlen, natura e istituzioni

Di: Alberto Giovanni Biuso
1 Settembre 2010

Arnold Gehlen (1904-1976) è convinto che una scienza dell’uomo, nel significato più ampio e insieme rigoroso, sia possibile. Tale scienza ha tra i suoi compiti quello di oltrepassare le diverse forme di dualismo, le vuote dicotomie di corpo e anima, materia e spirito, valutando il pensare e la fisicità «come reciprocamente presupponentesi e inclusi l’uno nell’altro» (US, § 1, 14)1. Anche la naturalità e la tecnicità dell’essere umano appaiono per ciò che davvero sono: la stessa struttura declinata in forme diverse. L’uomo è infatti tecnico per essenza, è un essere culturale che trova nell’artificio, nella formalizzazione, nello iato fra impulso e azione, la sua stessa identità di animale. Se quest’animal è rationale ciò è causa e conseguenza insieme della sua tecnicità produttrice di forme, e cioè di cultura. Questa sua peculiarità fa sì che perfino l’organico abbia nell’uomo una dimensione sociale e le società che gli uomini hanno costruito risultano a loro volta incomprensibili senza il riferimento a ciò che in esse è formalizzazione dell’elemento biologico.

Che cos’è l’uomo? «Das noch nicht festgestellte Tier», l’animale non ancora definito, si potrebbe rispondere con Nietzsche (MN, 36), “l’essere manchevole” del quale parlava già Herder, e soprattutto l’animale culturale. E cioè l’animale privo più di ogni altro di istinti, di ambiente, di specializzazioni. Già il neonato rappresenta «una sorta di “fisiologico” parto prematuro» (MN, 71) che ha bisogno di cure assidue e assai prolungate nel tempo prima di acquisire una qualche sufficiente autonomia. Le sue specializzazioni sotto il profilo dell’evoluzione biologica sarebbero semplici primitivismi, in realtà costituirebbero una serie di carenze che egli riesce a colmare solo grazie alle mani e all’intelligenza che si esprimono insieme nell’azione2. Mentre ogni altro animale si specializza -nel senso che perde la pienezza delle potenzialità dei suoi organi a vantaggio del mirato sviluppo di alcune soltanto- l’uomo rimane indeterminato, senza un ambiente (Umwelt) suo proprio ma con l’intero mondo (Welt) a propria disposizione. Lo strumento principe, e quindi la categoria centrale dell’antropologia gehleniana, è pertanto l’azione: «l’azione umana, eseguita coscientemente, è, in quanto esecuzione, nel suo processo reale, una unità del tutto speciale in quanto preproblematica e del tutto inscindibile secondo l’esperienza» (PA, 105).

Essere che agisce mediante atti controllati e regolati, l’uomo crea a se stesso la sua propria natura che è quindi immediatamente e in via del tutto preliminare cultura. In pratica l’animale uomo non ha mai vissuto in una natura immodificata. La sua identità è tecnologica e cioè istantaneamente trasformatrice del contesto in cui opera, sùbito artificiale e finalizzata al mantenimento e miglioramento del proprio vivere.

La cultura è pertanto la “seconda natura” -vale a dire: la natura umana dall’uomo elaborata autonomamente, entro la quale egli solo può vivere; e la cultura “innaturale” è il prodotto di un essere unico al mondo, lui stesso “innaturale”, costruito cioè in contrapposizione all’animale (MN, 64).

La natura dell’uomo è artificio e lo studio delle sue strutture non può che essere antropobiologia. Peculiare è in essa il fenomeno dell’esonero, dello iato fra le pulsioni istintive e il comportamento, il quale permette un comportamento mediato dalle funzioni allusive, metaforiche, concettuali, liberando in tal modo spazio ed energia per la possibilità di apprendere il mondo, modificare le decisioni, controllare il Sé. La capacità di antivedere e provvedere nasce in primo luogo da tale sganciamento delle azioni dalla dimensione istintuale alla quale invece gli altri animali sono legati. L’esonero apre anche l’altra fondamentale specificità umana: l’autodisciplinamento che produce le istituzioni. Da qui si sviluppa la capacità di una organizzazione sociale, la possibilità di una legge scritta e astratta, la necessità delle istituzioni: «L’uomo può mantenere un rapporto duraturo con se stesso e i suoi simili solo indirettamente, si deve ritrovare facendo una deviazione, estraniandosi, e là ci sono le istituzioni» (PA, 437).

Le grandi svolte nella storia dell’umanità sono state un progressivo chiarimento di tale intreccio peculiare. Il Neolitico, le religioni monoteistiche, la Rivoluzione industriale intersecano un graduale disincanto del mondo con il raffinamento degli strumenti tecnici e la ramificazione sempre più complessa delle strutture sociali. Con questo si vuol dire che nel corso del tempo si sono verificati dei cambiamenti epocali senza che però ciò debba implicare degli inevitabili miglioramenti. Anzi. Per Gehlen il rischio che la possibilità stessa di accorgersi dell’inaccettabile e cercare di farvi fronte stia scomparendo, è reale. La nostra è «una situazione senza precedenti che, per la prima volta nella storia, non introduce la limitazione dei mezzi consentiti già al livello della produzione di base» (US, § 46, 268). Sembra che la ubriV della produzione, l’irrazionalità del consumo, l’imponenza degli apparati siano le sole grandezze rimaste a un’epoca nel complesso assai più mediocre di quanto l’amor proprio del presente non voglia far credere in primo luogo a se stesso. Una modestia complessiva domina questo tempo. La volgarità che rifiuta le forme, le città sporche, i graffiti che ovunque aggiungono solitudine a solitudine, grigiore a grigiore, sono la conferma empirica -quotidiana- della pochezza generale3.

A fondamento di tutto questo Gehlen individua una ben precisa ragione: la perdita di legittimità e di senso delle istituzioni. Senza che Kant o Nietzsche potessero immaginarlo, col Sapere aude! rivolto all’individuo e nell’affrancamento del soggetto da ogni tradizione e venerazione non si è dischiuso un coglimento generale di razionalità, la universale liberazione dalle superstizioni e dalle auctoritates, ma l’estendersi dello squallore, la sottomissione di tutti a poteri ben più sottili, immateriali e proprio per questo assai più rigidi, pervasivi. Il venir meno del decoro non rappresenta la fine di un’abitudine fra tante ma costituisce la perdita di una delle ragion d’essere della cultura: «la difesa dell’uomo dalla sua stessa natura»; all’utopia della liberazione da ogni autorità «la storia rispose senza pietà, chiarendo radicalmente ai chiarificatori quale fosse la natura umana che essi avevano liberato dalle catene. E non si sono tuttora ripresi dallo stupore per il fatto che le masse non li seguivano nella loro perfetta illuminazione dell’interiorità» (US, § 23, 125).

In quanto uomini, enti biologici che trascorrono nel tempo, la negatività ci è necessaria affinché non si spalanchi l’abisso dell’arbitrio, il non senso che procura morte a sé e a qualunque cosa transiti per le mani. Secondo Gehlen, le istituzioni rappresentano per l’umanità ciò che l’istinto è nell’animale, il recupero di un comportamento finalizzato alla sicurezza della specie, alla sopravvivenza legittima dell’individuo con i suoi desideri e diritti in relazione con i desideri e i diritti di altri. Le istituzioni avrebbero quindi natura sostitutiva rispetto a istinti e tabù non più operanti. I riti, e cioè comportamenti formalizzati e aggreganti, creano un complesso di miti atti a giustificarli, dalla straordinaria molteplicità del racconto nascono lentamente le istituzioni. In origine esse rappresentavano il nomos che diventa storia. Il loro progressivo e necessario secolarizzarsi non può coincidere con la loro distruzione. Questa, infatti, sarebbe la fine stessa dell’umanità come complessa organizzazione di una specie solidale. Solo la formalizzazione di quanto di meglio, e cioè di più funzionale alla specie, ha prodotto l’umanità nella storia può garantire la sopravvivenza delle produzioni concettuali, artistiche, giuridiche che altrimenti verrebbero spazzate via a ogni generazione, a ogni avvento della barbarie che volendo tutto rinnovare non si accorge di quanto e di che cosa distrugge. Non è quindi messa in discussione la giustezza e necessità di un rinnovamento delle istituzioni che le mantenga atte a preservare il presente. In questo senso la costante riforma delle strutture istituzionali coincide con la loro stessa funzione. Ciò che invece è per Gehlen inaccettabile è la pretesa di poter vivere non bene ma meglio senza le istituzioni. Questo studioso non difende l’una o l’altra delle singole istituzioni che la storia e i popoli hanno prodotto ma la necessità che una qualche istituzione si dia affinché la ricchezza e complessità dell’agire sociale possa espletare senza troppa violenza la propria ricchezza di forme e diventare in questo modo durevole: «credo che le istituzioni siano mezzi per controllare la disposizione dell’uomo alla degenerazione. Credo anche che le istituzioni difendano l’uomo da se stesso» (DV, 102).

La straordinaria dovizia delle culture, delle organizzazioni socio-economiche, delle visioni del mondo viene sintetizzata da Gehlen in tre forme d’azione: «il comportamento pratico-razionale; il comportamento rituale-raffigurativo» e quello per il quale lo studioso usa l’espressione «inversione dell’orientamento pulsionale», vale a dire il processo che conduce all’ebbrezza, all’estasi e all’ascesi (US, § 48, 275). Le differenze fra queste forme sono nette, come anche però il loro intersecarsi. In ogni caso esse, e qualunque altra invenzione dell’umanità, si rapprendono in istituzioni, in queste si esplicano e al loro interno mutano. Nelle istituzioni la natura culturale e tecnica dell’uomo diventa vita: certo esse sono sempre incerte, spesso violente verso le aspirazioni dell’individuo, incombenti sul suo quotidiano con tutta la forza dell’oggettivo. E tuttavia senza le istituzioni resterebbe soltanto il «libero esplicarsi di una naturalità terrificante, poiché la debolezza della natura umana, qualora forme rigide non la proteggano da se stessa, assume un volto assassino» (US, § 28, 145).

Quel volto che agli occhi di Gehlen è ben rappresentato dalla massificazione inarrestabile della vita interiore e delle strutture collettive. La società appare sempre più divisa fra una minoranza di persone colte e avvertite e una maggioranza dedita soltanto al lavoro e allo svago mediatico, in particolare televisivo. La cultura di massa è caratterizzata soprattutto da tre elementi: la carenza di creatività e di fantasia; l’assenza della dimensione tragica; il rifiuto di qualunque complessità poiché «la cultura di massa non deve affaticare. Essa non deve sollevare alcun pensiero problematico [Denkprobleme]» (E, 41). Lo svago diventa uno degli strumenti di dominio sulle masse. Le quali, però, lungi dall’essere soltanto le vittime di tali tendenze, diventano le protagoniste della più formidabile coercizione sociale mai verificatasi. Su ciò Gehlen si distacca nettamente dalla critica sociale dei Francofortesi e si collega piuttosto al liberalismo di Stuart Mill e di Tocqueville. Egli sottopone infatti a critica due delle idee dominanti nella contemporaneità: la legge della maggioranza e l’eguaglianza naturale degli uomini. Gli effetti pericolosi della prima si osservano quando il principio di maggioranza viene indebitamente esteso dall’ambito suo proprio, che è quello politico, a settori come l’arte, la scienza, l’educazione. In questo caso avviene qualcosa di singolare: il ritorno a una legge assai rozza, la quale «stabilisce l’egemonia dei numericamente più forti [Kopfzahlstärksten]» (E, 383). Al pericolo totalitario insito in tale primato naturale bisogna opporsi apertamente, ribadendo il principio culturale secondo cui «la minoranza quantitativa può diventare una maggioranza qualitativa» (E, 107). Anche il principio di eguaglianza sociale rivela il suo lato d’ombra quando lo si fa valere in settori come quello etico, culturale, pedagogico. Che tutti siano capaci di tutto, che il sapere non comporti fatica, che l’aggressività sia soltanto un effetto sociale e non anche un necessario corredo biologico, rappresentano alcune delle ingenuità antropologiche che dominano il Moderno sulla scorta degli equivoci di Rousseau. Dall’affermazione che «tutti gli uomini sono uguali» è stato dedotto che essi «siano anche tutti buoni» e quindi «si poté far passare la diseguaglianza sociale per qualcosa di contronatura e moralmente vizioso» (E, 380).

L’idea di eguaglianza così intesa mostra tutta la forza di una vera e propria fede, tanto che risulta «impossibile professarsi atei della religione dell’eguaglianza [Atheist der egalitären sozialreligion]» (E, 384). Qualunque accenno critico viene subito giudicato come una pericolosissima eresia sociale, come un sentimento disumano o come una difesa di antichi privilegi. La religione egualitaria produce i tipici riti umanitaristici i quali, lungi dall’aver prodotto una convivenza più pacifica, hanno scatenato come mai prima la violenza sociale in tutte le sue forme: privata, criminale, politica. Dalla Rivoluzione francese e dal Romanticismo in avanti, sentimentalismo e ferocia hanno proceduto insieme  nel privare gli individui e i gruppi di qualunque misura etica e tolleranza pragmatica. Allorché una idea così astratta come l’eguaglianza naturale degli uomini assume il potere nella storia, subito si apre un nodo insolubile di problemi poiché il livellamento e l’accordo -fra gruppi etnici, economici, religiosi- rimane su un livello quasi esclusivamente ideologico con la tragica conseguenza di riattivare ogni volta i conflitti rimossi e repressi ma non risolti. Tornano quindi le guerre religiose e tribali, l’odio fra le etnie, una conflittualità sociale che nessun progresso economico sarà mai capace di eliminare.

Ai frutti avvelenati e amari dell’utopia che sempre inevitabilmente ricade nel più antico degli atti umani, il dare la morte; al delirio di onnipotenza delle pedagogie comportamentistiche che nel trattare gli uomini come macchine restituiscono l’uomo alla pura beluinità, funzionale al dominio del principio gregario4; alla radice di tutto questo, e cioè l’immagine dell’uomo contraddittoria e ottimistica che fu propria di Rousseau, Gehlen oppone la forza e la coerenza di una antropologia disincantata, davvero materialistica perché radicalmente immanente e nello stesso tempo capace di cogliere nella cultura lo specifico dell’animale uomo. Un’antropologia che quindi non si illude di distruggere il giogo delle circostanze e non inganna nessuno sul comune destino di fatica e di morte dell’uomo. Essa attinge la complessità del fenomeno umano, privandosi delle comode scorciatoie dell’ideologia, del meccanicismo e delle fedi ma proprio per questo in grado di fornire soluzioni e punti di vista – Einblicke– ancora attuali.

Su tutto questo è rivelatore un denso e polemico colloquio intercorso tra Gehlen e Adorno. Alcuni temi di fondo della riflessione adorniana sulla modernità -la disumanizzazione, l’emancipazione, la catastrofe e la sua dialettica- posti a confronto con l’empirismo di Gehlen mostrano spesso la loro debolezza e la dipendenza dal  volontarismo roussoviano. Adorno è, infatti, convinto che la volontà umana da nulla dipenda e se adeguatamente istruita e indirizzata possa rivolgersi verso il Bene assoluto e costruire qui e ora la giustizia. È significativo che di fronte a un accenno da parte di Gehlen alla situazione dell’Unione Sovietica e della Cina, Adorno risponda accusando l’interlocutore di «sarcasmo» e aggiungendo di non volere «difendere gli orrori terribili che evidentemente lì si perpetrano. Ma proprio il fatto che là prosegua il livellamento è la dimostrazione che quella società si fa scherno dell’idea di una società veramente liberata, secondo la propria sostanza» (DV, 96). Di fronte a una filosofia della storia che rimanda sempre all’altrove la realizzazione delle proprie certezze, Gehlen ha la capacità di individuare l’imporsi della più omologante delle ideologie, quella del pensiero unico:

Credo, signor Adorno, che sia anche la prima volta che simili formule dogmatiche non abbiano opposizione, non trovino nemici. I greci si distinguevano dai barbari, i cristiani dai pagani, gli illuministi dai sostenitori del feudalesimo. Ma tutti sono per l’uguaglianza, tutti sono per il progresso, tutti sono per lo sviluppo. (DV, 94)

Torna ancora una volta il tema delle istituzioni: esse rappresentano una semplice struttura storica o la loro esistenza e necessità ha come fondamento la biologia della specie umana? Il volontarismo di Adorno fa delle istituzioni qualcosa di totalmente dipendente dai rapporti di produzione e quindi di eliminabile in relazione alle trasformazioni dell’economia e delle relazioni sociali. Alla visione progressiva dei francofortesi -progressiva anche quando svela la dialettica dell’illuminazione- Gehlen oppone ironicamente delle considerazioni conservatrici che mostrano una sorprendente attualità: «se ci si vuole preoccupare, ad esempio, d’introdurre riforme universitarie, allora dovremmo dapprima prestare servizio in quella sfera per un paio di decenni per conoscere dove stiano i punti deboli» (DV, 104). Al costruttivismo volontaristico dei riformatori astratti e alla conseguenze disastrose della loro incomprensione del reale, un’antropologia radicata nelle costanti insieme biologiche e culturali della storia oppone l’intelligenza del mondo.

In generale, l’uomo potrebbe essere definito come Zuchtwesen, essere da disciplinare (MN, 88) poiché solo imponendo a se stesso la norma -e socializzandola nelle istituzioni- un ente privo di istinti può sopravvivere nel coacervo delle difficoltà ambientali e delle condizioni storiche. Ecco perché gli esseri umani per crescere hanno bisogno di attrito, di ciò che Hegel definiva il lavoro del negativo, di tutte quelle difficoltà, fatiche e superamenti che producono le inibizioni che altri animali possiedono per natura e che invece l’animale uomo deve imparare.

In ogni caso, in Gehlen non sembra operare alcun riduzionismo evoluzionistico. Se non può esserci «alcun dubbio sulla parentela assai prossima di uomo e scimmia» (MN, 116), questa apre assai più problemi di quanto ne risolva. È infatti altrettanto evidente per Gehlen che «il mondo degli animali non è il nostro» (MN, 106). Tanto grandi sono le differenze qualitative tra le rispettive prestazioni, così pochi e limitati gli “istinti” umani rispetto alla moltitudine di quelli animali che «ogni derivazione diretta dell’uomo dall’animale […] non può che bloccare sin dall’inizio questa problematica» (MN, 41). Tra tutti gli animali soltanto l’Homo sapiens sapiens non avrebbe strumenti fisico-biologici di natura specialistica; sarebbe privo di adeguati organi di difesa, attacco e fuga; possederebbe dei sensi non particolarmente specializzati ed efficaci. Ma proprio tale condizione manchevole e non definita ha costretto l’essere umano a dotarsi di quegli strumenti di osservazione, riflessione, previsione e azione che chiamiamo cultura. Soltanto questo gli ha consentito di sopravvivere sino a dominare il pianeta e le sue risorse. La cultura è diventata più che una seconda natura, è entrata «a far parte delle condizioni fisiche dell’esistenza umana» (AP, 112). E pertanto «un essere, per il quale sta aperta l’intera ricchezza dello spazio e del tempo, possiede mondo e non ambiente (Welt und nicht Umwelt)» (AP, 117).

Mentre gli altri animali si adattano organicamente a un luogo e in esso si specializzano, l’uomo plasma le condizioni esterne fino a farne un mondo in cui muoversi con assoluta padronanza. Gehlen utilizza con abilità alcuni importanti risultati della biologia e della genetica (Portmann e soprattutto Bolk) per evidenziare l’arcaicità filogenetica e il primitivismo ontogenetico degli organi e dell’evoluzione umana, che fanno del neonato, come si è già visto, «una specie di “parto prematuro fisiologico, ossia normalizzato”» (AP, 158) e che rendono il primo anno di vita un tempo di formazione fisica e sociale, dove i due elementi coincidono per intero.

E tuttavia mi sembra che abbia ragione Roberto Marchesini quando osserva che qui opera un vero e proprio «mito dell’incompletezza umana»5 e quando rileva la permanenza di una forte matrice antropocentrica in Gehlen, il quale avrebbe dovuto essere assai più cauto anche in merito a una delle più radicate ma non per questo meno false forme di dualismo, quella tra l’umano e il teriomorfo, il mondo dell’animalità. La zooantropologia, invece, «sulla scorta dello studio etologico della relazione uomo-animale va a individuare funzioni e dimensioni della zootropia, ossia della risposta relazionale suscitata nell’uomo dall’appeal animale, oltre che dello studio delle tipologie in cui si declina tale relazione interspecifica»6. Il limite maggiore delle teorie dell’incompletezza filogenetica proposte da Gehlen e Geertz, avrebbe la sua matrice nell’idea di Kroeber del superorganico come insieme di idee –la cultura- indipendenti da individui, società, biologia. C’è da dire, però, che lo stesso Kroeber definisce il superorganico in termini più continuativi e problematici rispetto alla sintesi operata da Marchesini-Tonutti: «la linea di demarcazione tra il sociale e l’organico non si può tracciare a caso o frettolosamente» poiché l’uomo «è una sostanza organica che può essere considerata in quanto tale, ed è anche una tavola su cui si può scrivere. Un aspetto è valido e giustificabile quanto l’altro; ma confondere i due punti di vista è un errore fondamentale»7.

Ritengo che l’umano produca ciò che chiamiamo cultura come il ragno fila la sua tela e che possa essere accaduto proprio quanto Marchesini e Tonutti escludono, e cioè che «il processo selettivo abbia favorito un indirizzo di incompetenza performativa, tale per cui di colpo avrebbe fatto la comparsa sul proscenio dei viventi una specie assolutamente priva di strumenti di sopravvivenza»8. L’antropologia di Gehlen risulta coerente con una concezione dell’umano come possibile vicolo cieco dell’evoluzione, cosa che qualche volta accade in natura, visto che l’evoluzione non è affatto un processo teleologico. Va invece del tutto condiviso l’invito di Marchesini ad allontanarsi «da quel pensiero fecondo e pericoloso a un tempo che l’uomo sia eccentrico paradossalmente rimanendo al centro»9. Non esistono centri ontologici e gerarchie etiche. Si dà piuttosto una ricchezza radiale di forme nelle quali la materia esplica la gratuita potenza del proprio esserci.

Molto altro Gehlen insegna: dall’importanza dell’immaginazione alla «grande ragione del corpo» (MN, 397), che esclude la localizzazione dell’intelligenza nella testa soltanto, come hanno confermato anche gli studi neurologici di Antonio Damasio. È vero: «l’argomento uomo è il più complesso che si dia in generale» (MN, 239). L’opera di Gehlen non ne esaurisce certo l’analisi e anzi per propria esplicita ammissione riconosce di aver trascurato aspetti quali la storicità e le comunità. E tuttavia offre un’introduzione davvero problematica allo studio dell’umano, un’introduzione che deve molto -per suo esplicito riconoscimento- a Hobbes, a Schopenhauer, all’etologia di Lorenz, a Scheler, a Pareto. E quindi a un sostanziale realismo antropologico, senza il quale non si parla degli umani ma degli angeli.

Note

1 Le opere di Gehlen qui analizzate vengono citate mediante le seguenti sigle e il relativo numero di pagina.

MN: L’UOMO. La sua natura e il suo posto nel mondo (Der Mensch. Seine Natur und seine Stellung in der Welt. Akademische Verlagsgesellschaft Athenaion, Wiesbaden, AULA Gmbh, 1978. I ed. 1940), trad. di C.Mainoldi, introduzione di K.S. Rehberg, Feltrinelli, Milano 1990.

US: Le origini dell’uomo e la tarda cultura. Tesi e risultati filosofici (Urmensch und Spätkultur. Philosophische Ergebnisse und Aussagen, Aula, Wiesbaden 1986 [1956-1975]), trad. di E.Tetamo, Il Saggiatore, Milano 1994.

PA: Antropologia filosofica e teoria dell’azione (Philosophische Anthropologie und Handlungslehre, Vittorio Klostermann, Frankfurt a.M. 1983), trad. di G.Auletta, presentazione di E.Mazzarella, Guida, Napoli 1990

E: Einblicke (Gesamtausgabe, Band 7), Vittorio Klostermann, Frankfurt am Main 1978 (le traduzioni da questo testo sono mie) .

DV: T.W.Adorno-E.Canetti-A.Gehlen, Desiderio di vita. Conversazioni sulle metamorfosi dell’umano, a cura di U.Fadini, Mimesis, Milano 1995.

2 I limiti di questo assunto gehleniano vengono discussi più sotto, in particolare nella nota 5.

3 «Ci mancano del tutto la durezza e la rigidità degli antichi, ma anche il loro opposto classico: la loro serenità e libertà…il piacere e il “di più” di vita sono diventati diritti che si pretendono; il senso autenticamente aristocratico e autenticamente proletario del tragico viene deriso, la forza morale e spirituale non vale più a porre un limite al superfluo e al già detto, la vita non vissuta sviluppa forme sue proprie di dittatura, tutti i parametri si rimpiccioliscono. È lo stile Luigi Filippo dell’epoca» (US, § 22, 114).

4 Un esempio clamoroso è il Sessantotto, i cui protagonisti furono vittima di una «dipendenza mentale [geistige Abhänngigkeit] dai mezzi di comunicazione di massa», che produsse un linguaggio povero e uniforme, «un gergo esibizionistico e artificioso» (E, 316).

5 R. Marchesini, Post-Human. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhieri, Torino 2002, p.19.

6 R. Marchesini – S. Tonutti, Manuale di zooantropologia, Meltemi, Roma 2007, p.11.

7 A.L. Kroeber, Antropologia dei modelli culturali, Il Mulino, Bologna 1976, pp. 76 e 44.

8 R. Marchesini – S. Tonutti, Manuale di zooantropologia, cit., p.112.

9 R. Marchesini, Il tramonto dell’uomo. La prospettiva post-umanista, Edizioni Dedalo, Bari 2009, p.187.

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