Tosca, ieri e oggi
All’interno della Tosca di Puccini, recentemente rappresentata al Teatro Carlo Felice di Genova, soprattutto risalta, credo, la straordinaria forza che la protagonista mostra di possedere, commista alla dolce fragilità tipica di una donna dal grande cuore; è possibile udire nella storia della cantante di Roma, comunque non scevra da alcune sentimentali retoriche che sono invece assenti, ad esempio, nella più tarda Madama Butterfly, un deciso ritratto psicologico dei protagonisti e al contempo uno sguardo da lontano sulla ineluttabile distruzione cui va incontro la passione soverchiante, tema sempre caro, questo, all’inquietudine romantica.
Ma parliamo anzitutto della versione genovese.
Lo spettacolo di Giacchieri ha visto Tosca (Daniela Dessi), Cavaradossi (Fabio Armiliato) e gli altri protagonisti agire prima dinanzi alla chiesa dentro cui il pittore ha conosciuto la devota Attavanti, e in cui si accinge a terminare il ritratto di lei (la porta sulla destra scintilla sempre dell’incerta luce delle candele, aumentando l’effetto scenico delle entrate attese attraverso le loro ombre), quindi, nel secondo atto, nell’elegante ambiente in cui Scarpia (Claudio Sgura) prova a sedurre l’atterrita Tosca inseguendola tra tavoli e poltrone; nel terzo atto, infine, la scena è occupata dal tetro, fiocamente illuminato luogo d’esecuzione all’aperto dove Cavaradossi troverà la morte: una misteriosa sporgenza che dà sullo sfondo costituisce il luogo dell’ultima disperata battuta della cantante, prima della caduta nel vuoto.
L’attenzione ai costumi, al coro, ai dettagli scenografici ha posto l’accento sulla ricostruzione storica della Roma ottocentesca, sull’architettura in particolare, in modo raffinato ed essenziale. Le belle scene di Adolfo Hohenstein, realizzate da Ettore Rondelli, sembrano prediligere le luci fosche, i toni sommessi, un certo suggestivo mistero dell’indefinito, ma in modo mai inappropriato, mai romanzesco; al contrario, la profondità conferita alla scena asseconda lo sguardo dello spettatore nella psicologia del personaggio, e i passaggi attraverso cui si intuiscono altri ambienti (l’ingresso alla cappella, quello alle segrete da cui giungono le urla di Cavaradossi torturato, il balcone della stanza di Scarpia) rendono l’opera più saporita, più fruibile, grazie all’effetto di “presenza assente” di voci o luoghi distanti. I personaggi del resto, percorrendo in lungo e in largo la scena, ne usufruiscono, direi, con una “semplice solennità”: ad esempio quando Cavaradossi, in apertura del sipario, appare davanti al cavalletto, si individua immediatamente il suo ruolo, la sua passione, la sua arte; ma se quel cavalletto non fosse in posizione elevata, la sua figura non risulterebbe così titanica, non grandeggerebbe su tutta la scena. Spesso sono gli oggetti a fare i personaggi.
Il festoso corteo di chierichetti non è pomposo, ma risulta forse un po’ ingombrante mentre il pastore (Luca Arrigo) cerca di riportare l’ordine. È anche vero che tanto più eclatante, grazie alla folla, risulta l’irruento ingresso di Scarpia che cerca di imporre il silenzio.
Il carattere di Scarpia è interessante, colorato, anche se forse nell’interpretazione dello Sgura, comunque squisita, appare fin troppo corroso dalla passione, fin troppo perverso insomma: il barone perde di nobiltà nell’inseguire affannosamente la splendida diva. In ogni caso, i panni del cattivo sono quasi sempre i più difficili in cui calarsi nonché i più interessanti, e il personaggio non perde mai di spessore e di vitalità, anche smarrendo il proprio contegno, soprattutto perché questo lo rende più vicino al pubblico.
Elegante, imponente, raffinata, la Dessi ha dominato la scena con la parola e col gesto. La drammaticità del capo reclinato, del corpo prostrato a terra ha talvolta toccato, è vero, il patetico ma ha reso l’opera meno statica, ne ha fluidificato la sostanza. Se non proprio coinvolgente appare il botta e risposta inziale dei due amanti (anche se alla scenata di gelosia il pubblico, come sempre sensibile alla quotidianità, ha saputo ridere) è anche vero che l’appressarsi e allontanarsi di Tosca dal suo uomo è proprio delizioso. Dopo il celebre Vissi d’arte, vissi d’amore il teatro ha applaudito a una Tosca malinconicamente abbandonata a terra, la lunga gonna allargata sul pavimento. Tosca in generale, ma questa Tosca in particolare, è intermittente, va e viene, è accesa e spenta: entra ed esce dal balcone illuminato dalla luce lunare, si avvicina alle segrete e se ne allontana, piange al pubblico e si chiude in se stessa. È questa sua grazia altalenante, questa sua capricciosa bellezza a essere, io credo, lo spirito dell’opera, e la Dessi ha valorizzato proprio questo spirito, rivelandosi una Tosca modernissima e magnifica.
Cavaradossi, nonostante il suo fervore rivoluzionario, il suo fascino maledetto, penso abbia meno spessore degli altri due personaggi: forse perché è meno dinamico, o forse, e probabilmente, perché siamo abbastanza abituati a caratteri di questo tipo in un eroe. È un giudizio da XXI secolo: non doveva sembrare affatto un personaggio-tipo all’epoca della prima rappresentazione. Non c’è dubbio, comunque, che Armiliato abbia gestito con grande fermezza i due volti dell’amante e del martire per la patria.
Non so per quale ragione il regista abbia sempre fatto uscire gli artisti dal sipario tra un atto e l’altro, uniti per mano; ha probabilmente voluto giudicare dagli applausi quale fosse l’entusiasmo del pubblico nei confronti di ciascun atto. Non trovo molto felice la scelta del molteplice scroscio d’applausi, dal momento che l’opera andrebbe giudicata intera, e che a ogni modo il pubblico sembra avere l’abitudine a manifestare sempre lo stesso entusiasmo, chissà perché.
Non è inopportuno, dunque, spendere qualche parola su questo melodramma.
Ritratto psicologico, si è detto: infatti non solo i personaggi non sono monolitici e assoluti, non vengono mai avulsi dal loro contesto storico, non sono proiettati in una sorta di età puramente rappresentativa, come invece Tristano e Isotta wagneriani o Nabucco, ma mostrano anche tratti molto realistici, quotidianamente umani. Ai grandi temi romantici tradizionali (la devozione all’Amore e alla patria, il fervore rivoluzionario, l’esasperato individualismo che porta al suicidio come sua somma affermazione) si accosta una maggiore varietà all’interno degli atteggiamenti dei singoli personaggi, e un’attitudine non necessariamente solenne nei confronti del contesto storico; del resto con la prima rappresentazione della Tosca siamo ormai nel 1900, e forse i moti rivoluzionari italiani non sono più un argomento così avvincente.
Nel primo atto, vediamo il pittore Cavaradossi preoccupato di coprire il ritratto angelico dell’Attavanti, affinché Tosca, che arriverà tra poco piena di gioia, non possa vederlo: Tosca è una donna squisita, ma è meglio non farla arrabbiare…Quando la donna si accorge del dipinto, il cui soggetto le è stranamente familiare, manifesta con calore il proprio malcontento, fino a costringere l’amato a trasformare gli occhi azzurri del ritratto in occhi neri uguali ai suoi; non accetta compromessi: rimarrà dolce e fedele per sempre, ma quegli occhi devono diventare neri e basta.
Un’opera d’amore e di sangue comincia nientedimeno che con un battibecco per gelosia: nel melodramma italiano l’Amore trionfa, ma in quest’opera l’Amore con la a maiuscola non ha soltanto elementi rarefatti, privi di concretezza. Lo sguardo verista di Puccini apre una porta sulla varietà dei sentimenti umani iscrivendoli in una vivace dialettica di inseguimenti, di provocazioni, di slanci d’animo: si pensi anche al momento in cui il perfido Scarpia si eccita ancora di più alle manifestazioni di rabbia da parte di Tosca (ha una passione spiccata per le donne che fino alla fine non si concedono) e si lancia su di lei con un curioso gioco di provocazioni, o a quel punto della prigionia di Cavaradossi in cui il pittore inizia a scrivere una lettera che non riuscirà a finire, per via di tutti i ricordi (i baci, le “languide carezze”) che il pensiero di Tosca gli suscita.
Sono i ripensamenti, gli sbotti d’ira, le contraddizioni a rendere umani gli uomini. Turandot vaga nella trascendenza, chiamata da forze oscure; Madama Butterlfy, tagliati i ponti con la sua gente, la sua religione, tutto ciò che conosce, si consuma nel continuo anelito alla perfezione, volendosi donare perfetta allo sposo Pinkerton, e completa la sua sublimazione nel suicidio. Tosca invece è un donna comune, umana. Va in escandescenza quando Scarpia la provoca, ma non può non rivolgergli suppliche nell’udire le grida di dolore dell’amato sotto tortura. E riesce persino, sebbene così buona, così castamente devota a Dio, a trovare la forza per uccidere Scarpia, dopo aver avuto l’accortezza di fargli promettere di non far uccidere Cavaradossi. Non aspira al sublime, all’eternità, alla salvezza da una vita di prigionia: vuole vivere con l’uomo che ama, vuole avere con lui tanti istanti fugaci pieni di dolcezza, come quello che annuncia all’amato comparendo in scena per la prima volta. Chi ama trova una forza che non pensava di avere, e in questo Tosca si dimostra un’eroina senza dubbio romantica, una figura romanzesca, ma al contempo non perde il proprio carattere, non diventa un semplice “tipo” senza variazioni.
Tosca è la protagonista di un’opera teatrale di cui Puccini si innamorò subito; forse il motivo per cui egli abbia scelto di scrivere un’opera proprio su questo dramma, durante gli ultimi anni del XIX secolo, è proprio la grande vitalità di questo personaggio, così ricco, così realistico. Il fatto che, nel melodramma, Tosca sia una cantante conferisce una particolare profondità allo spettacolo, perché in questo modo la figura della protagonista è cantante due volte. Mi piace pensare che l’autore abbia visto in Tosca parte di se stesso; non solo perché è plausibile che un autore si immedesimi in ogni sua opera, ma anche e proprio per il fatto che Tosca è un’artista, costretta a vivere a metà tra i due piani della finzione artistica e della realtà. È uno spirito estuoso, una donna che vive profondamente ogni istante e pertanto si realizza attraverso una densa inquietudine, e la molteplicità di aspetti di questo splendido personaggio si rispecchia nelle variazioni dell’andamento musicale, negli sbalzi improvvisi, negli smottamenti melodici che accompagnano gli eventi più carichi di significato: si può parlare forse di una certa “femminilità” in quest’opera musicale, appunto per la sua incostanza. Ogni atto è pieno di attesa, a volte fin troppo stemperata, come spesso accade nell’opera, dai lunghi indugi lirici. Il suicidio stesso di Tosca è improvviso, da lei assolutamente inaspettato, e tanto più grave appare la sua morte se si considerano le dolci speranze della donna che fino a poco prima le riempivano le parole: in lei divampa il rancore (“Sarpia, davanti a Dio!”) prima del lancio nel vuoto.
Di filosofia, nel melodramma, non ce n’è poi troppa; ma in questa sede è certo opportuno che un po’ di filosofia si porti alla luce. Ebbene, sebbene la produzione operistica italiana si affidi generalmente al cuore, rimanendo distante dalle profonde speculazioni wagneriane circa il rapporto tra l’Io e l’infinito, occorre dire che queste storie così piene di passione, pulsanti del calore giovane di un popolo che va scoprendo la propria identità nazionale, non solo hanno l’effetto catartico evidenziato da Aristotele, ma possono a volte, come nel caso di Tosca, attraverso l’astrazione così concreta dell’arte musicale, dirci molto sul sacrificio all’ideale, sull’essere protagonisti della propria vita, sulla felice consapevolezza del proprio potenziale emotivo, e in definitiva, a vivere in modo più autentico; le quali cose, quanto mai rare nel nostro vivere di menzogne edulcorate, inducono a concludere, usciti da teatro, che la bellezza è sempre etica, e la musica è sempre vita.
Tosca di Giacomo Puccini |
Anno: 2010 |
Teatro Carlo Felice di Genova |
Direttore: Marco Boemi |
Regia: Renzo Giaccheri |
Scene: Adolf Hohenstein |
Orchestra e Coro del Teatro Carlo Felice |
Con: Daniela Dessì (Tosca), Fabio Armiliato, Claudio Sgura, Nicolay Bikov, Armando Gabba, Marssimiliano Drappello, Angelo Nardinocchi, Roberto Conti. |
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