Orient-Express. Intervista impossibile a Carl Gustav Jung (II parte)
Mi precisa meglio la vicinanza del Bardo Thödol con la Psicologia analitica?
«È semplice: secondo me, lo stato paradisiaco della liberazione dalla serie delle reincarnazioni e dai condizionamenti karmici, corrisponde all’esperienza di chi, avendo percorso le tappe del processo di individuazione, ha infine realizzato l’archetipo del Sé».
Sembra plausibile…Senta professore, non può mancare almeno un cenno al libro dell’I Ching, al lancio delle monete, alla lettura degli esagrammi…
«Sì. Molti occidentali liquidano quest’opera come una raccolta di formule magiche prive di valore. Ma per me questa tecnica oracolare è una maniera di conoscersi».
Perché è così difficile per un occidentale dare credito a un libro oracolare?
«Perché si dovrebbe rinnegare, ad esempio, la verità assiomatica del principio di causalità. Eppure ormai, da Hume in poi, anche in Occidente la legge causa-effetto mi pare scossa nelle sue fondamenta: oggi sappiamo che le leggi della fisica non sono altro che verità statistiche, costrette perciò ad ammettere delle eccezioni».
La natura ha altre leggi?
«Se lasciamo che la natura faccia da sé, vediamo che ogni processo subisce interferenze parziali o totali a opera del caso. Un corso di eventi che si conformi in tutto e per tutto a qualche legge non rappresenta la norma».
Mi ricorda la teoria del caos…E la mentalità cinese nell’I Ching?
«La mentalità cinese sembra preoccuparsi esclusivamente dell’aspetto accidentale degli eventi. Ciò che noi chiamiamo “coincidenza” è per loro il centro di interesse, mentre ciò che noi chiamiamo “causalità” per loro passa quasi inosservato».
E questo come si applica all’I Ching?
«Quando si gettano le tre monete, quello che noi oggi chiamiamo “caso” entra nel quadro dell’istante d’osservazione formandone una parte: una parte insignificante per noi occidentali, ma estremamente significativa per la mentalità cinese. Appena lanciate le monete, l’istante che sta sotto osservazione è il risultato della somma di ogni possibile legge naturale che proprio in quel momento si rivela. Ciò che interessa è la configurazione che gli eventi accidentali assumono in quel momento. L’occidentale che cerca le ragioni ipotetico-razionali che rendono conto dei fatti giudica l’I Ching una superstizione popolare. Per il cinese invece il momento osservato racchiude in sé, per forza di cose, il totale di tutti gli ingredienti».
La mentalità occidentale invece isola e classifica. Essa vuole spiegare e lo fa secondo la legge di causa-effetto. Ho capito bene?
«Sì. Per noi sarebbe un’affermazione assurda dire che qualunque cosa avvenga in un dato momento possiede fatalmente la qualità caratteristica di quel momento. In esso vi è la summa di tutte le leggi dell’Universo che proprio così lo hanno determinato».
Continui con l’I Ching altrimenti mi sfugge l’intuizione…
«L’I Ching parte dalla convinzione che l’esagramma elaborato in un dato momento coincide con quel momento anche nell’essenza. L’esagramma è il rappresentante del momento e in quel momento vi è il tutto, perché il tutto è sempre presente in ogni sua parte. L’esagramma è un indicatore della situazione essenziale prevalente in quel momento. Di qui la sua possibilità previsionale».
E che relazione c’è con la Psicologia analitica?
«Intanto le dico che questa teoria implica un principio che io ho denominato “sincronicità”, un concetto in opposizione a quello della causalità. La causalità è qualcosa di statistico, non assoluto…Una specie di ipotesi di lavoro sul modo in cui gli eventi evolvono l’uno dall’altro. La sincronicità invece osserva la coincidenza degli eventi nello spazio e nel tempo e vi vede una peculiare e non casuale interdipendenza di tutte le forze oggettive dell’Universo e di tutte le forze soggettive, cioè psichiche, dell’osservatore. Ecco il legame con la psicologia. Ovviamente l’antica mentalità cinese non parla di “condizioni psichiche”. Lì si parla di anima vivente o di entità spirituali che operano in modo misterioso e che fanno dare una risposta sensata alle domande che si pongono all’I Ching. Dalla nostra coscienza, figlia dell’Illuminismo, l’I Ching non è accettato. Ma proprio per questo io credo che l’inconscio possa incontrarlo. Un incontro di energie».
Ma la legge di causa effetto si può sottoporre a esperimento…
«Intanto le dico che alcune epistemologie hanno già cominciato a ipotizzare che il modello scientifico del mondo fisico abbia contaminazioni psicofisiche. La scienza include l’osservatore esattamente come l’I Ching, nel rivelare il tutto in una parte, e include anche le condizioni psichiche dei soggetti che lo interrogano. La causalità descrive la sequenza degli eventi, mentre la sincronicità descrive la loro coincidenza globale. Il nesso causale è statisticamente necessario e può quindi essere sottoposto a esperimento. Invece le sessantaquattro situazioni descritte dagli esagrammi sono ogni volta uniche e non possono essere ripetute. Con la sincronicità dell’I Ching il solo criterio di validità è l’opinione dell’osservatore, per il quale il testo dell’esagramma corrisponde a una fedele riproduzione del suo stato psichico. Ma lei ha ragione: il mio senso di responsabilità verso la scienza mi fa ammettere di non avere una risposta razionale ai problemi che sorgono quando cerchiamo di conciliare l’oracolo dell’I Ching con i canoni scientifici. Ma vede…l’irrazionale pienezza della vita mi ha insegnato a non scartare mai nemmeno ciò che va contro tutte le nostre teorie che a volte, me lo lasci dire, si dimostrano effimere e infeconde».
Una frase per sintetizzare?
«Non conosciamo tutte le leggi dell’Universo ma le possiamo vedere all’opera: nell’I Ching, la caduta delle monete è proprio quella che deve essere necessariamente in una data situazione. E dunque ogni cosa che avviene in quel momento vi appartiene quale indispensabile elemento dell’insieme. Quel momento rappresenta il tutto che in quel momento si rivela».
L’I Ching, come Socrate, insiste sull’importanza di conoscere se stessi…
«Sì, ma non è adatto né per le persone frivole o superstiziose né per i razionalisti. È adatto a persone riflessive che desiderano un’occasione per esaminare il loro carattere, il loro comportamento e le loro motivazioni. Non si dimentichi che l’I Ching è stato la principale fonte d’ispirazione per uomini del calibro di Confucio e Lao-tse».
Dunque…Facciamo il punto. Occidente e Oriente…
«Direi che la differenza sostanziale tra la cultura orientale e quella occidentale consiste nel fatto che la prima possiede una tradizione millenaria di consapevolezza dei contrari e della loro necessaria compresenza, mentre la seconda si fonda su una sorta di delirio di onnipotenza della coscienza da cui consegue il pregiudizio della superiorità assoluta del razionale sull’irrazionale, della logica sulla fantasia. Se dunque l’orientale, quando si incammina sulla lunga via delle sue tradizioni, compie per ciò stesso la migliore e più sicura tra le cose che potrebbe fare, l’occidentale, per contro, dovendo imboccare la strada che conduce al compimento armonico della sua personalità, rischia di mettersi spesso in contrasto con i suoi abituali referenti intellettuali, morali e religiosi o, quantomeno, porsi di fronte a essi in atteggiamento molto critico: in tal modo, viene a privarsi di ogni copertura e di ogni sicurezza».
Come consulente ora ho una chiave interpretativa in più per comprendere l’origine storica della mancanza di senso che noto in molti dei miei consultanti. Potrei chiederle un approfondimento? Al di là del fascino che ha per me l’Oriente, vorrei soprattutto conquistare una distanza critica dalla mia cultura occidentale. Per averne maggiore consapevolezza. Mi dica se ho ben capito. La disposizione psicologica dominante in Occidente, per usare i suoi termini, è l’estroversione. La realtà dell’anima è spesso trascurata, se non addirittura negata. Non a parole, perché la retorica cristiana usa spesso il termine “anima”, ma di fatto, perché l’interiorità è trascurata.
«Bene! E invece la disposizione psicologica dominante dell’Oriente è l’introversione. L’importanza dell’anima è enorme e vitale. E a questo proposito è indicativo anche quanto abbiamo detto del problema del male. Ricorda?»
Sì. Il male come privatio boni…Il Dio cristiano è bontà assoluta, e dunque il male è relegato in una figura a Lui esterna e inconciliabile.
«Esattamente. In Oriente invece il male è preso in seria considerazione, fa parte dell’uomo e va superato con la meditazione e il distacco dalla materialità. Si crea, così, il “corpo pneumatico”. Il mandala è il simbolo più diffuso per aiutare la concentrazione: esso rappresenta l’unione degli opposti cui si deve tendere e che invece l’Occidente rifugge».
Ma lei ha anche detto che il cristianesimo rappresenta un’evoluzione spirituale decisiva rispetto al rozzo paganesimo che dominava in precedenza, anche se il superamento imposto dalla nuova religione cristiana è stato troppo brusco. E l’Oriente da questo punto di vista?
«La tradizione orientale è plurimillenaria. Il superamento degli istinti animali è stato, anche per questo, molto graduale. Il pericolo di un rimosso che ritorna è molto minore che in Occidente. Il lungo tempo che l’uomo orientale ha avuto per assimilare la sua religione, unitamente alla sua inclinazione all’introspezione, lo hanno portato a sviluppare una personalità molto più armonica rispetto a quanto abbiano potuto fare i duemila anni di Cristianesimo».
Ma i cristiani obiettano che solo la loro religione ha visto un Dio incarnarsi e indicare la via per la salvezza. Cristo si è incarnato ed è entrato nella storia come una persona umana concretamente esistente.
«E quindi sa che succede? La redenzione e la salvezza, per il cristiano, dipendono dall’opera di Cristo e dalla grazia che Egli concede. In questo io vedo un pericolo di deresponsabilizzazione del fedele, di esteriorizzazione del culto e di perdita di valore dei suoi simboli. Ma, soprattutto, se il bene appartiene al divino, allora il male (che pure è avvertito con terribile evidenza da ogni persona) diventa responsabilità esclusiva dell’uomo e della sua fallibilità: un peso così grande che induce spesso, individualmente e collettivamente, a un moralismo intriso di sensi di colpa o, all’opposto, come unica arma di difesa, a una pericolosa anestesia morale».
E l’Oriente?
«La cultura orientale colloca i suoi simboli in un’atemporalità indistinta al di fuori della storia. La salvezza, per l’orientale, dipende esclusivamente dal suo operato personale, dal momento che i simboli dimorano solo nella sua anima. La religione è, dunque, una profonda esperienza individuale del tutto interiorizzata. Il rischio di vivere i simboli in modo formale è molto minore».
Mi sta facendo pensare a una differenza che mi ha sempre colpito. Gesù Cristo dice: “Io sono la via, la verità, la vita”. Buddha dice: “Non credete alle mie parole solo perché ve le ha dette un Buddha, ma esaminatele con cura. Siate luce e guida a voi stessi”. Una bella differenza di responsabilità…Sembra emergere un giudizio complessivamente negativo nei confronti del Cristianesimo e uno positivo riguardo l’atteggiamento degli orientali.
«In realtà non è così. Prima di tutto perché io considero il simbolismo della Chiesa cristiana come un indispensabile strumento attraverso cui l’uomo occidentale può realizzare compiutamente la sua personalità e, quindi, come uno dei modi per giungere all’individuazione; in secondo luogo perché, come ho già detto, il pericolo di unilateralità a scapito dell’inconscio è dovuto più alla matrice illuminista dell’attuale cultura che non ai limiti intrinseci della figura di Cristo, perlomeno così come è stata tramandata dalla Chiesa; infine perché lo stesso pericolo di unilateralità io lo ravviso anche in alcune tradizioni religiose dell’Estremo Oriente, in particolar modo nel buddhismo indiano e in quello tibetano».
E quindi insisterei: il rischio di unilateralità vale tanto per la psiche dell’occidentale quanto per quella dell’orientale…
«Sì. La prima, con il prevalere assoluto della coscienza, favorendo un fecondo contatto con il mondo esterno, ha consentito all’uomo di sviluppare un’enorme capacità di manipolazione della realtà, il cui risultato più importante e evidente sono state le invenzioni e le scoperte della scienza e della tecnica; d’altra parte, però, il mondo interiore, per l’occidentale, è rimasto sempre una realtà sconosciuta, a volte paurosa, più spesso dimenticata. Viceversa, l’uomo orientale, avendo coltivato da molti millenni l’esperienza dell’introspezione, ha raggiunto sublimi profondità spirituali, ha elaborato moltissimi sistemi di meditazione, ma è rimasto legato a una conoscenza del mondo esterno molto embrionale, quasi infantile».
Le caratteristiche di queste due culture sembrano di fatto complementari e comunque tali da farmi giudicare come cosa naturale e positiva il sempre maggior numero di occidentali che abbracciano qualche religione orientale.
«Ma io ho molte riserve in questo senso. Intanto direi che il lato d’ombra dell’occidentale può sì essere rimosso, ma non può essere cancellato con un semplice cambiamento di religione. Nel Vangelo si dice che per estinguere un debito non ci sono ricette o licenze, ma solo il pagamento fino all’ultimo centesimo. L’abbraccio della cultura orientale diventa un non voler pagare un conto che pure, prima o poi, bisogna saldare. All’interno della propria tradizione religiosa è già insito il metodo migliore per realizzare la personalità individuale in maniera piena e profonda; vi sono già, cioè, quei simboli che, più facilmente e fortemente di altri, possono guidare il processo di individuazione verso la realizzazione autentica del Sé».
Ma abbiamo detto che tra simboli orientali e simboli occidentali c’è differenza…
«Non mi fraintenda. Confermo ciò che abbiamo detto e proprio per questo ribadisco che i rischi di pericolose deviazioni sono molto minori per l’uomo orientale. Noi con la nostra religione (e con la nostra psicologia) abbiamo cominciato non dico ieri, ma solo questa mattina a percorrere la via del Sé. Tuttavia abbandonare la propria tradizione lascia sempre aperto il rischio del ritorno del rimosso».
Ora mi è chiaro. Mi è chiaro anche che la Psicologia analitica ha individuato nei simboli una funzione essenziale e nello stesso tempo comune a tutte le culture. È il simbolo la chiave di volta della Psicologia analitica?
«Direi più gli archetipi. I simboli funzionano da “trasformatori”, in quanto trasferiscono la libido da una forma “inferiore” a una “superiore”. Senza i simboli la straordinaria numinosità degli archetipi inconsci non potrebbe essere assimilata dalla coscienza che anzi, messa direttamente a contatto con quella forza, rischierebbe di non comprenderla o, addirittura, di dissolversi spezzandosi in vari frammenti».
Ma il simbolo acquisisce forza, o numinosità come dice lei, perché siamo noi che gliela diamo o perché la possiedono intrinsecamente?
«Come dicevamo all’inizio, si tratta di proiezione. La numinosità dei simboli deriva in realtà dall’inconscio, il cui dinamismo è finalizzato, a sua volta, al compimento dell’individuazione. L’uomo lo ignora o lo dimentica. Nel caso dei simboli delle religioni ciò non comporta particolari problemi, in quanto essi, grazie al loro altissimo valore spirituale, consentono comunque all’uomo di intraprendere la strada che conduce all’individuazione. Tuttavia, in altri casi, non saper riconoscere il fenomeno della proiezione può portare a quel particolare atteggiamento che Lévy-Bruhl ha definito come partécipation mistique, vale a dire l’incapacità di distinguere tra soggetto e oggetto».
Come consulente filosofico sarei interessato a degli esempi concreti…
«Ci sono, ad esempio, molte persone che modellano la loro vita sulla base dell’immagine che hanno di un loro genitore o di un loro idolo, molte altre che ricorrono a pratiche superstiziose o si affidano ciecamente al consiglio di maghi e al potere dei loro amuleti, altre ancora riescono sempre a giustificare i loro errori incolpando altri per ciò di cui, invece, dovrebbero rispondere in prima persona. Si può inoltre considerare sintomo di partécipation mistique anche l’accettazione acritica di un’ideologia o un atteggiamento fideistico nei confronti della propria religione: sono comportamenti che indicano generalmente una certa alienazione della coscienza e producono spesso, come conseguenza, intolleranza d integralismo».
Lo scopo della psicologia analitica è dunque quello di favorire l’individuazione. Ma si tratta di un processo completamente autonomo oppure analista e paziente possono fare qualcosa?
«Il superamento di un conflitto psichico avviene quasi sempre in modo casuale, per l’improvviso sopraggiungere di un fatto (esterno o interiore) che riesce a innalzare la personalità del paziente. Si tratta di un avvenimento casuale: né i pazienti né lo psicologo compiono alcunché per provocarlo. Ho notato però che tutti coloro che subiscono un improvviso innalzamento della loro personalità, tale da far superare il conflitto nella loro psiche, possiedono una caratteristica comune: la capacità di lasciare che qualcosa dentro di loro accada senza porre ostacoli, obiezioni morali, religiose o personali. Probabilmente questo essere psichicamente in grado di lasciar accadere è proprio ciò a cui si riferiscono anche alcuni maestri orientali quando parlano della misteriosa “azione nella non azione”… Il wu wei».
In gioventù ho approfondito un’esperienza cristiana e mi viene in mente quella sensazione di libera dipendenza da un qualcosa di misterioso ed affascinante che nasce all’interno dell’animo umano e che sostituisce, ma non destituisce, la volontà individuale.
«Sono lieto allora che mi comprenda. La nascita del corpo adamantino che cresce nel fiore d’oro o il cambiamento che l’apostolo Paolo (nella Lettera ai Galati se non sbaglio) esprime con la sua confessione (“non sono io che vivo, ma è Cristo che vive in me”), sono due chiare esemplificazioni, in contesti culturali diversissimi, dell’avvio del processo di individuazione».
Dunque l’“essere psichicamente in grado di lasciar accadere” è la disposizione che concede alle istanze inconsce di essere integrate nella coscienza.
«Sì, certamente».
Dovendo ora spiegare in che senso la psicologia analitica possa collocarsi come un ponte tra le culture, anche quelle più lontane tra di loro, compio due ordini di considerazioni. Mi corregga se eccedo le sue intenzioni.
«La ascolto».
Grazie al concetto di individuazione e del simbolismo attraverso cui si esprime (tanto a livello individuale che collettivo) la Psicologia analitica ci ha fornito una grande ipotesi ermeneutica applicabile in un ambito culturale vastissimo. Penso alle varie mitologie dell’eroe solare entro cui rientrano anche molte grandi religioni come il Buddhismo o il Cristianesimo…
«Già. In questo senso la psicologia analitica è di per se stessa un ponte tra le culture. Tutto ciò verso cui la libido si riversa è finalizzato all’individuazione; a partire dagli oggetti della natura o quelli comuni (come nell’animismo, nell’idolatria, nel feticismo), fino ad arrivare a meccanismi psicologici più complessi come la proiezione su personalità ideali (il culto degli eroi) o, ancora, su entità metafisiche e divine dapprima antropomorfe e, con il trascorrere dei secoli, via via sempre più astratte (come nella religione)».
Come consulente filosofico mi interessa sapere che posso ricercare nel dialogo filosofico anche un’idea guida, un paradigma di vita che sia il più possibile completo e non abbia in sé pericolose unilateralità. Posso cercare di rendermi esplicito ciò che in un’idea guida resta generalmente implicito. Mi interessa poter trovare in se stessi un simbolo che permetta loro di intraprendere il cammino verso l’individuazione. Posso aggiungere solo questo, se consente: questo simbolo va scoperto o esplicitato soprattutto nel dialogo, in particolare nel dialogo con un filosofo.
«Bene, la voglio aiutare a chiarire. Ogni simbolo rappresenta una potenza misteriosa in esso contemporaneamente celata e manifesta. Un’ambivalenza. Un reciproco rimando tra immanenza e trascendenza di sé. La psicologia analitica rivela come ogni simbolo sia uno strumento con cui la psiche tenta di realizzare la sintesi delle sue componenti opposte…È l’individuazione».
Se ho ben capito, i simboli religiosi dell’Occidente sono pensati perfetti ma non sono completi. C’è unilateralità.
«E invece, per la Psicologia analitica, il Sé, in qualunque simbolo si manifesti, è intuito completo (c’è l’armonia degli opposti) ma deve essere perfezionato. Così è, generalmente, per l’orientale. Egli sa, per tradizione, che il limite fa parte integrante del percorso che conduce alla sua individuazione: senza limite non c’è coscienza. Ma non sarà mai schiacciato dalla responsabilità o dalla colpa nel suo cammino».
Ma i simboli hanno un riferimento a una metafisica, a una trascendenza?
«Io sostengo che dietro i simboli ci siano impulsi della psiche umana. Ne deriva un valore totalmente immanente: essi sono un particolare tipo di fenomeni empirici».
Allora i simboli sono uno strumento per il vero e unico scopo, la realizzazione della persona nella vita terrena. Dobbiamo rimanere fedeli alla terra…
«Sì, si può dire. Si può approdare ad una forma superiore di autocoscienza dopo la caduta dei vecchi simboli, nel momento in cui ci si rende conto che il loro compito è stato espletato, cosa che accade solo nel momento in cui il contenuto inconscio, trasformato dal simbolo, viene integrato nella coscienza».
I simboli muoiono…Dio è morto…
«Il simbolo è vivo soltanto finché è pregno di significato. Ma quando ha dato alla luce il suo significato, quando cioè è stata trovata un’espressione ancora migliore del simbolo in uso fino a quel momento, il simbolo muore. O meglio: diciamo che esso conserva ancora soltanto un valore storico».
Trovo un’assonanza con la filosofia. Per me la filosofia è continua ricerca. Vedo che la Psicologia analitica suggerisce una nuova forma di coscienza che non si dà una volta per tutte: essa è un compito mai pienamente realizzabile che in ogni uomo richiede il lavoro (psichico) di un’intera vita.
«L’uomo non potrà mai fare a meno dei simboli, unici intermediari tra la coscienza e le forze terribili dell’inconscio: alcuni di essi potranno sì inaridirsi, ma certamente ne saranno trovati altri che li sostituiscano e aiutino il percorso verso l’individuazione. Un infinito processo di coniunctio oppositorum che si svolge all’interno della psiche umana con lo scopo di creare una personalità individuale armonica».
In ogni caso un passo in più nel percorso per obbedire a Socrate: “Conosci te stesso”. O a Nietzsche: integra apollineo e dionisiaco e “diventa ciò che sei”.
«Sì. Realizzare il “Terzo Adamo”, uno dei mille nomina con cui viene chiamato il risultato dell’opus alchemicum».
Provo a immaginare le conseguenze della consapevolezza di possedere nella propria psiche l’immagine archetipica di Dio. La riverenza, la paura, il dubbio, la gioia e tutti i sentimenti che proviamo in un normale rapporto con la divinità diventano in realtà modi di espressione mediante cui noi comunichiamo con la parte più profonda e numinosa di noi stessi. Accorgendoci allora che l’uomo nella divinità venera l’energia dell’archetipo, diventiamo consapevoli del fatto che pregare Dio significa pregare noi stessi o meglio introvertire la nostra libido per attivare quel simbolo capace di incanalare grandi quantità di energia psichica verso la direzione più adatta a far progredire la nostra coscienza.
«Sì, lei ha inteso perfettamente. Una cosa non nuova, ma ora fondata con una teoria psicologica. Ma preciserei che quando io parlo di Dio come simbolo archetipico dietro cui si nascondono solo impulsi della psiche umana, mi riferisco esclusivamente a effetti psicologici, i quali non affermano nulla a proposito di un’effettiva esistenza di Dio».
La Psicologia analitica assume quindi una posizione agnostica?
«Sì e non si pone in contraddizione con nessuna religione. Che Dio esista o meno non incide sul fatto che Dio sia comunque un potentissimo simbolo che può avere profondi effetti nella psiche dell’uomo; che una religione affermi l’esistenza di una vita ultraterrena non esclude il fatto che i suoi simboli abbiano anche effetti terreni. Di questi ultimi, e solo di questi, si occupa la Psicologia analitica. Stiamo parlando in particolare per l’Occidente. L’Oriente, come sa, ha già più chiara l’immanenza dei rimandi dei suoi simboli. Non rischia alienazioni».
La domanda che mi dovrei fare come consulente a questo punto è: “Come riconosco quali simboli stanno guidando la psiche del consultante nei vari momenti della vita e, soprattutto, di quale vitale messaggio essi sono forieri? Per dirla con le parole di Paul Ricoeur: che cosa “dà a pensare” il simbolo? Domanda che vale in primo luogo per la mia vita, ovviamente.
«Non le do una risposta ma le ricordo l’essenziale: mai essere unilaterali! La ragione senza i simboli è pericolosamente vuota e i simboli senza la ragione sono fantasticamente ciechi…»
Grazie davvero, arrivederci. Ci penserò…
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