Gilbert Ryle, un comportamentista?
Nel secondo dopoguerra la filosofia della mente uscì dal suo periodo d’ombra con la Scuola di Oxford, dove già dagli anni Trenta si avvertiva forte l’influenza del secondo Wittgenstein. Il tentativo di superare il dualismo cartesiano aveva infatti fatto arenare gli studi filosofici in argomentazioni spesso sterili che avevano portato persino Russell a ironizzare sulla staticità involvente degli indirizzi.
Nel 1949, Gilbert Ryle (1900-1976), tra i maggiori esponenti della Scuola di Oxford, pubblicò The concept of mind. Con Ryle la riflessione analitica incentrata sullo studio del linguaggio ordinario si ampliò, partendo da esso, verso un’analisi più articolata della filosofia della mente.
Il testo di Ryle fu pubblicato in Italia nel 1953 a cura di Ferruccio Rossi-Landi col titolo Lo spirito come comportamento molto probabilmente per l’influsso ancora molto forte della filosofia tedesca del Geist che, come ebbe a dire Armando Plebe, portava a ritenere, a guisa degli idealisti e dei romantici, lo Spirito come qualcosa di più nobile che non la mente, poiché lo Spirito era ancora inteso come il senso, la spiegazione. Forse, dunque, fu per adattarla a una mentalità italiana che Rossi-Landi, in collaborazione con Ryle, tradusse mind con Spirito anziché con mente. In realtà le intenzioni di Ryle erano altre ovvero di demetafisicizzare la mente attraverso una «terapia del linguaggio»1 che potesse permettere di superare il ‘mentalese’, il linguaggio della mente: una serie di enunciati e di espressioni create proprio presupponendo la dualità tra eventi corporali ed eventi mentali; un universo linguistico, dunque, usato dai filosofi per «costruire le loro teorie sulla natura e luogo delle menti»2, basato sul falso presupposto dualistico. Eliminare tutti i termini mentalistici dal linguaggio ordinario avrebbe dovuto essere l’obiettivo primario di una terapia del linguaggio. L’urgenza di una riforma in quest’ambito, piuttosto che di una formalizzazione del linguaggio, era dovuta alla maggiore praticità del linguaggio ordinario determinata dall’use. Sotto accusa, in Ryle, non era l’uso, infatti, semmai l’improprio usage che generava la serie di pregiudizi di cui è intessuto il linguaggio ordinario3. Non tutti erano d’accordo con questa distinzione. Per Foster, ad esempio, non c’era alcuna differenza tra use e usage, poiché l’uso di parole o espressioni è anche e soprattutto determinato dall’usage4. Ryle ritenne invece che nell’indagine analitica del linguaggio si dovesse escludere l’usage, intendendo per esso il costume, la moda corrente, la tradizione che si insinuano nell’uso di parole o di espressioni. Si avverte nella prospettiva ryleana l’influenza del secondo Wittgenstein, così come ci ricorda Strawson:
He was much more influenced by Wittgenstein… the second… it’s true that the later Wittgenstein was his great influence, and he was indeed a friend5.
Gli errori, dovuti all’usage, fanno capo all’originario dogma dello spettro nella macchina, con cui Ryle ribattezza la official doctrine 6.
Secondo la dottrina officiale, che dobbiamo soprattutto a Descartes, ogni essere umano, con l’eccezione forse degli idioti e dei lattanti, ha -alcuni preferiscono dire è – sia un corpo che una mente. I due pezzi, comunemente, sono incollati; ma può darsi che dopo la morte del corpo la mente continui a funzionare7.
La dottrina officiale è «un unico grande sbaglio di categoria»8, che chiama errore categoriale.
Essa presenta i fatti della vita mentale come appartenenti a un tipo o categoria (o classi di tipi o categorie) logico (o semantico) diverso da quello cui essi appartengono. Il dogma è dunque un mito filosofico9.
Il mito di Descartes ha condotto all’idea che esistono due tipi di eventi: quelli pubblici e quelli privati; quelli fisici e quelli mentali. Ryle sostiene che una teoria siffatta conduce inevitabilmente a tre grandi problemi. Primo tra tutti «il problema dell’influsso reciproco di mente e di corpo»10, ma non soltanto. Per l’official doctrine gli eventi privati sono trasparenti al soggetto, sebbene Freud nel Novecento abbia dimostrato l’inconsistenza di questa affermazione11; esistono infatti eventi inconsci che ci portano «ad ignorare fatti che secondo la dottrina officiale dovrebbero esserci ovvi»12. D’altra parte, argomenta Ryle, la psicanalisi porterebbe a un solipsismo forse più esasperato di quello di Descartes: non soltanto l’impossibilità di conoscere la mente altrui ma, ancora più grave, l’impossibilità di conoscere gli stessi processi della nostra mente. Scrive Ryle: «Su queste basi l’anima non può sottrarsi ad un’assoluta solitudine: solo i corpi s’incontrano»13.
Descartes ha agito, seguendo la visione di Ryle, come le popolazioni primitive, le quali, vedendo per la prima volta un’automobile, avrebbero pensato che dentro ci fosse uno spettro. Così agisce chi, vedendo che il corpo si muove e l’organismo si comporta razionalmente, immagina che dentro ci sia un fantasma. Il problema, dunque, non è sintetizzabile nella domanda se esiste o non esiste una distinzione tra mente e corpo, poiché in realtà Ryle dimostra sin dall’inizio del testo l’inconsistenza di un tale presupposto con una serie di esempi di errori categoriali, come quello dello straniero che visita un’università e dopo che gli hanno mostrato biblioteche, aule, musei e laboratori e quant’altro, protesta di non aver visto ancora l’Università, come se questa stesse «nella stessa categoria cui appartengono i suoi vari istituti»14. Allo stesso modo agisce chi cerca la Persona, come fosse uno «spettro ascoso in una macchina»15, non accettando di ricondurre il pensare, il sentire e l’agire intenzionale a semplici fatti fisici, chimici, fisiologici. «La complessa e unitaria organizzazione del corpo umano spinge a postularne una altrettale, anche se di diversa sostanza e struttura»16 che abbia peraltro un Accesso Privilegiato al suo proprio fare.
Si è pertanto sostenuto 1) che la mente non può fare a meno di essere costantemente consapevole di quanto occupa il suo palcoscenico privato; 2) che essa può deliberatamente esaminare per mezzo di una percezione non sensoriale taluni almeno dei suoi stati e operazioni17.
Mentre la costante consapevolezza è detta coscienza, la percezione non sensoriale è detta introspezione, la mente ha, in tal maniera, «un duplice Accesso Privilegiato al suo proprio fare, che fa la sua conoscenza di sé superiore in qualità e anteriore in genesi ad ogni altra»18. Ryle ritiene che tali teorie ufficiali, su coscienza e introspezione, siano pasticci logici e che possiamo ottenere la stessa conoscenza pur senza l’ipotesi che essa venga raggiunta per accesso privilegiato.
Si può parlare di coscienza, solamente accettando l’idea che essa implichi anche il non consapevole. Esistono, infatti, operazioni come quelle seriali di cui abbiamo una consapevolezza parziale. Ciò esclude anche la possibilità di pensare all’introspezione come alla capacità di ogni individuo di eseguire un’operazione attenta almeno saltuariamente, che sia nella sua ricorsività completamente consapevole, poiché un’operazione del genere implicherebbe «atti d’attenzione sincroni» che inevitabilmente farebbero approdare all’ammissione che devono esistere «processi mentali non introspettabili»19.
Tutto quello che uno sa di se stesso e degli altri può esser distribuito in una serie di gradini approssimativamente distinti l’uno dall’altro, ad ognuno dei quali corrisponde un senso del verbo ”sapere” o del verbo ”conoscere”. Uno può sapere che sta cantando una canzonetta senza accorgersi che lo fa per fingere un sangue freddo che non ha. Può sapere che sta fingendo, ma non che l’agitazione che vuol nascondere è un segno di coscienza sporca. Può sapersi in preda a un senso di colpa senza conoscere la repressione che lo origina. In nessuno di questi casi del sapere o conoscere, il postulato dell’Accesso Privilegiato è necessario o utile a spiegarne la provenienza. Ci son casi in cui mi è più facile apprendere qualcosa di me stesso che di altri; in altri casi mi è più difficile20.
Negare la validità teorica e logica del duplice accesso privilegiato, non toglie nulla all’individuo o alla capacità di conoscere se stesso, piuttosto, è proprio superando siffatto convincimento che «la conoscenza del prossimo è restaurata a parità di diritti con quella di sé»21.
Il tentativo di andare oltre il dualismo, non soltanto dimostrandone l’insussistenza, ma ‘ripulendo’ il linguaggio ordinario da tutti i termini mentalistici che fanno capo a un cattivo usage, di cui mostra la fallacia, ha condotto al convincimento che Ryle fosse un comportamentista.
Sta di fatto che il filosofo si difendeva affermando ne Lo spirito come comportamento che, chi avesse voluto vedere una posizione comportamentista nella sua trattazione, avrebbe dovuto tener conto che il principio hobbesiano sul quale, a parer suo, si basa il behaviourismo non è poi così diverso da quello cartesiano nei termini di errore teorico. Anzi, sostiene, con l’esempio della compagnia di soldati e della fortezza sconquassata, che la visione cartesiana -e ciò conta molto in considerazione del suo anticartesianesimo- è addirittura più fertile. Ci sono due compagnie di soldati che devono difendere una città. La prima (metaforicamente la visione hobbesiana) si insedia in una fortezza nella quale il fosso è asciutto, non ci sono porte e le mura cadono in pezzi. La seconda (metaforicamente la visione cartesiana) rifiuta la protezione di una fortezza sconquassata e prende posizione all’ombra della fortezza. Questi ultimi «si sono resi conto di come una fortezza in rovina non sia più una posizione fortificata; che nemmeno la sua ombra lo sia è la prossima cosa che potranno forse imparare»22.
Eppure, persino Strawson lo definiva «a refined behaviourist», così come nell’introduzione al testo The philosophy of mind si legge: «G. Ryle, who was a logical behaviourist, provides an influential criticism of dualism»23.
È J. R. Lucas a spiegarci cosa si intenda per logical behaviourist: «The shocking thesis with which we are then confronted, konw as Logical Behaviourism, is one which seems to eliminate the soul, explain it away, analyse it out in terms of behaviour patterns»24.
Sembra dunque che Ryle, pur difendendosi, non abbia convinto né colleghi né lettori né i filosofi di un altro tempo. A tutt’oggi, infatti, è considerato un neo-comportamentista, anche se non alla maniera di Skinner e Watson.
Strawson aveva ben visto laddove affermava la vicinanza di Ryle a Wittgenstein anche su tale dibattuta questione.
He was a kind of refined behaviourist… you can see this in the Italian title Lo spirito come comportamento… That’s to say, the mind manifests itself in what we do or say. So he shared, I think, some of the mistakes of Wittgenstein, playing down inner experience to a large degree 25.
David Pole, in The later philosophy of Wittgenstein, scrive che «Wittgenstein himself has been thought a behaviourist»26. Per Pole, però, ci troviamo di fronte a un enorme errore quando parliamo di Wittgestein -e anche di Ryle, a questo punto- in tali termini. Pole afferma che è lo stesso dualismo che porta al comportamentismo. Se infatti consideriamo che l’esperienza intima di ogni uomo e quindi i suoi desideri, le sue immagini mentali, i suoi sentimenti, costituiscono qualcosa di incomunicabile, qualcosa di nascosto, come una classe di oggetti che soltanto lui può percepire, ci troveremo di fronte alla tesi dualistica. D’altro canto, i comportamentisti rifiutano questa idea come finzione. Una finzione, però, non può dirci nulla.
For one asks, if dualism is rejected -and though the term is not used, the standpoint is clear enough-. What other alternative remains? But Wittgenstein does not mean to offer any alternative, any other or newer theory of picture. It suffices that the ordinary forms of discourse concerning experience exist and function satisfactorily. Here as elsewhere what we require is to observe, to note, not to explain, the practice of a particular language-game27.
Ryle, come Wittgenstein, non restringe lo studio dell’uomo allo studio del suo comportamento. Il suo scopo non è quello di dissolvere la coscienza, come qualsiasi altro comportamentista, ma di renderla parte integrante dell’elemento comportamentale dell’uomo stesso.
La conclusione di Pole chiarisce ancora una volta: «Dualism in fact tells us nothing; all we need here is to let go of a picture»28. Come dire che ciò di cui necessitiamo nella conoscenza dell’alterità è di lasciare che il ritratto si compia da sé.
Con molta probabilità chi crede Ryle comportamentista in realtà è condizionato dalla ‘dottrina officiale’, oso dire anche coloro che la rigettano. Se infatti si legge Ryle sperando di trovarvi un’argomentazione che coniughi il fisico e il mentale come una sorta di nuova soluzione per superare il dualismo, si rimarrà delusi e sarà evidente la propensione ryleana verso un reale concreto che sebbene non escluda il mentale, lo riconduce comunque al fisico.
Ryle argomenta, partendo dal presupposto che la dottrina officiale sia falsa e dunque semplicemente eliminandola, tentando di mostrare come «la storia dei due mondi è un mito filosofico (non una favola), e con ciò di cominciare a riparare il danno che esso è andato per qualche tempo producendo dentro all’edificio della filosofia»29. A questo punto, Ryle non ha più il problema di giustificare o di trovare soluzioni, poiché per lui l’essere umano è un’unità organizzata, complessa e non riducibile a uno spettro. Vedere nel dogma dello spettro nella macchina la dimostrazione del comportamentismo di Ryle, poiché sembra ridurre l’uomo a una macchina, significa credere la metafora più importante della teoria sostenuta.
Gli uomini non sono macchine, e nemmeno macchine cavalcate da spettri. Essi sono uomini: una tautologia che talvolta val la pena di ricordare30.
In realtà l’uomo se è una macchina, è una macchina talmente complessa che non è possibile averne un’idea chiara e definitiva. Dunque, l’unica possibilità è analizzare i singoli elementi di questa categoria così inafferrabile nella sua interezza, ma altrettanto coglibile nella sua complessità. Come si vede non si vuol ridurre l’essere umano a un deterministico vivere, tranne se non si vuol credere che rifiutare il dualismo implichi necessariamente una presa di posizione mentalistica o materialistica, ma piuttosto analizzare, studiare, osservare ciò che è possibile senza presupposti di alcun genere se non che l’individuo nella sua irriducibilità partecipa, sì, a tratti universali, senza con questo poter o voler rinunciare alla sua sfera appartentiva, di fronte alla quale non possiamo che rimanere in ascolto affidandoci al suo dire o al suo operare o al nostro giudicare, in caso contrario rischieremmo la deriva solipsistica.
Non c’è bisogno di degradar l’uomo a macchina quando gli si nega d’essere uno spettro in una macchina. Dopo tutto, potrebbe anche essere un tipo di animale, e precisamente un mammifero superiore; e resta ancora da fare il gran passo d’azzardar l’ipotesi che forse è un uomo31.
Note
1 L’espressione è di L. Wittgenstein e si trova in Philosophical investigations, Basil Blackwell, Oxford 1953.
2 G. Ryle, Lo spirito come comportamento, Laterza, Roma 1982 (I ed. Einaudi, Torino 1953), p. 5.
3 Cfr G. Ryle, The ordinary language, in Collected papers, Thoemmes Antiquarian Books Ltd, Bristol 1990, reprinted from The Philosophical Review, vol. LXII, 1953. Nell’articolo Ryle spiega i motivi per cui l’analisi filosofica deve rivolgersi allo studio del linguaggio ordinario.
4 Cfr M.B. Foster, ‘We’ in modern philosophy in Faith and Logic (edited by Basil Mitchell), George Allen & Unwin LTD, London 1957 (1958).
5 G. Randazzo, Strawson on Gilbert Ryle, «Metalogicon», XX, 2, July-December 2007, p.114
6 G. Ryle, The concept of mind, ed. Penguin, London 1990 (I ed.1949, Hutchinson, London), p.
7 Id, Lo spirito come comportamento, cit., p. 5.
11 Cfr S. Freud, L’Io e l’Es, ed. Boringhieri, Torino 1980, «La distinzione dello psichico in cosciente e inconscio è il presupposto fondamentale della psicanalisi. […] La psicanalisi non può far consistere l’essenza dello psichico nella coscienza, ed è invece indotta a considerare la coscienza come tra le possibili qualità dello psichico», p.19.
12 Id, Lo spirito come comportamento, cit., p. 7.
23 Brian Beakley and Peter Ludlow (edited by), The philosophy of mind: Classical Problems/Contemporary Issues, The MIT Press, Cambridge, Massachusetts, London, England 1992, p. 4.
24 J.R. Lucas, The soul in Faith and logic, cit., p. 135
25 G. Randazzo, Strawson on Gilbert Ryle, cit., p. 114.
26 David Pole, The later Philosophy of Wittgenstein, University of London- The Athlone Press, London 1958, p. 67.
29 G. Ryle, Lo spirito come comportamento, p. 279.
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