Maria Teresa Antonelli, una voce dall’oblio

Di: Simone de Andreis Gerini
1 Luglio 2010

Un giorno in una biblioteca universitaria mi sono “imbattuto” in un filosofo di nome Maria Teresa Antonelli la quale ha avuto il potere di toccarmi lo spirito. Subito ho sentito il desiderio e il bisogno di riportarla alla luce, quella luce negatale dalla sua drammatica vicenda umana. Da allora ho scritto di lei, su di lei, sul suo pensiero; ho promesso di portarla in Argentina e così ho fatto in una conferenza all’Università di Mar del Plata. Oggi a distanza di anni mi accompagna ancora. Voce alle volte forte ma spesso flebile, tradita, ricercata e riaccolta. Ho studiato e studio altri filosofi e altre filosofie, mi sono aperto a nuove suggestioni teoretiche, convinto che il pensiero sia uno svolgersi continuo e perenne. Ma l’ho sempre amata e sento che per me è importante oggi essere presente, con questo scritto, alla nascita di Vita pensata.

Ho deciso di tralasciare, per esigenze di brevità, la carriera accademica di Maria Teresa Antonelli e le note biografiche, basti solamente indicare che nel 1958, all’età di trentasei anni, vinse il concorso per la cattedra di Filosofia presso l’Università degli Studi di Genova. Ciò che mi ha affascinato del pensiero dell’Antonelli, è stata la costante ricerca della trascendenza, non soltanto dal punto di vista gnoseologico ma anche e soprattutto esistenziale. Dal mio studio sul pensiero del filosofo pavese, credo di aver individuato almeno tre “momenti” in cui emerge in maniera più o meno esplicita la tensione all’Origine, all’Infinito, che caratterizza l’uomo pur nella sua finitezza. Proprio per tale motivo questa tensione può essere definita come la dialettica della presenza-assenza. Presenza di infinito nel finito umano, assenza poiché si tratta “solamente” di una goccia di infinito nell’uomo.

Il primo di questi “momenti” si trova nell’atteggiamento mistico, che Antonelli ritiene essere un: «andare con tutto l’essere verso l’Essere, dare all’essere dell’uomo, a questo infinito uomo, tutta la pienezza del suo essere, aprire all’essere dell’uomo, a questo finito uomo, tutta la pienezza dell’Essere»[1]. Ecco dunque l’uomo antonelliano, sintesi di finito e di infinito. Antonelli afferma che l’esistenza dell’ente è aperta all’Essere, non adeguata all’Essere e, pertanto, destinata all’Essere nella pienezza di sé [2]. Prosegue affermando che è conquista non esclusiva del filosofo di professione -bensì di tutti coloro che assumono consapevolezza della vita- lo scoprirsi reali e nel medesimo tempo deficienti, sentire l’invalicabile realtà della nostra esistenza e il rimando a una integralità più piena per colmare la sua radicale incompletezza, intuendo la possibilità di non essere e insieme la possibilità di essere solo così [3]. Leggiamo ora ciò che Antonelli scrive a proposito del mistico: «Egli è un uomo che ha compiuto un discorso raccolto sulle cose e le ha sinteticamente valutate per quello che valgono: tutte qualcosa, ma nessuna Tutto tranne Una sola» [4]; e prosegue sostenendo che: «[Il mistico] ha pronunciato ancora un discorso su di sé: si è scoperto qualcosa che non riesce a valere per sé adeguatamente a ciò che tenderebbe a valere; ma, ciononostante, nessuna cosa vale il prezzo di questa sua esistenza deficiente; il suo prezzo proporzionato è soltanto l’ Essere che valga Tutto»[5] ; e conclude sottolineando che: «Un mistico è sempre qualcuno che ha scoperto a fondo la separazione irreparabile e insieme il rimando assoluto tra l’ente e l’Essere» [6]. Tutto ciò converge nel definire la mistica come la consumazione di una metafisica dell’Essere, dal momento che presuppone una coscienza di Dio e di noi, e si edifica nella certezza che Dio è e che l’uomo esiste come rimandato all’Essere [7]. Il momento dell’angoscia e della disperazione è la seconda parte del pensiero del filosofo pavese, in cui si intravede il segno della dialettica della presenza-assenza, che caratterizza l’uomo in quanto finito che percepisce in sé l’Infinito. Infatti Antonelli ritiene che il vero nullismo metafisico si ha quando si sostiene che tutto sia nullo, senza che il nulla sia nulla, e non quando si afferma semplicemente che tutto è nulla; inoltre il nulla nasce e regna quando non si ha più la coscienza che il non possedere nulla è essere poveri, ma si è convinti che questa sia la ricchezza. Un uomo non è distrutto finché piange ancora su qualcosa o su se stesso: è veramente nientificato quando, nella disperazione totale, non trova più un solo motivo per piangere, ma sempre solo un “naturale” senso che tutto ciò che è accaduto o non accaduto sia estremamente naturale così come esso è. Ognuno di noi ha toccato il nulla non nell’abbandono ma in quella tremenda parola che è il “tutto qui”, il “tutto uguale” senza più distacco e senza più ribellioni. La fiducia verticale nel trascendente viene destituita, mentre quella longitudinale nell’esperienza parziale viene fondata in assoluto. Il filosofo prosegue denunciando il nichilismo come impermeabilità che rende incomprensibile e inintelligibile la speranza ultramondana. Infatti il circolo filosofico è oggi aperto psicologicamente a qualsiasi speranza, ma è chiuso, nel pensiero dell’Antonelli, di fronte all’unica speranza, ovvero a quella nel trascendente. La conclusione, per coloro che si illudono di aver trovato nell’insicurezza e nel frammento la sicurezza totale, è che l’Oltre resta cifra indecifrabile e vagante, residuo di un’ombra fuggita dagli ultimi ruderi di chiostri del Medio Evo [8]. La situazione contemporanea è quanto mai tragica per Antonelli, ma ciò nonostante conoscersi e sentirsi come un mistero fa parte dell’esperienza di contingenza di ciascun uomo, che l’Antonelli considera: «come senso d’un vuoto che non si colma e non cessa d’essere, grido e invocazione di Dio» [9].

Nella domanda se è possibile una metafisica, il filosofo sviluppa il terzo momento della sua teoresi, in cui emerge la dialettica della presenza-assenza. Scrive infatti Antonelli: «La metafisica è il problema intrinseco dell’esperienza e l’intrinseca condizione della filosofia, della consapevolezza cioè della problematicità dell’esperienza, e quindi della consapevolezza di tale problematicità»10. Pertanto la metafisica è cercare il significato ultimo e totale del reale universo; è tentare di rispondere alle domande “c’è un valore del tutto?”, “ il tutto ha un significato e un valore?”11. A tal proposito osserva Antonelli: «Che si ritrovi un punto che ha senso nel mare dell’esperienza è molto: ma la richiesta propriamente metafisica non si placa nel ritrovare un punto che abbia senso e che illumini, da cui le cose abbiano senso, ma qualcosa che dia senso a tutte le cose e che sia il senso in cui si ritrovano tutte le cose»12. Sottolineiamo dunque che per il filosofo di Pavia la metafisica è porsi il problema dell’ultimo significato che ha “questo” che io sto vivendo, come problema del significato unitario in cui si ritrova l’unità dell’essere13.

Concludiamo con le parole di Maria Teresa Antonelli, nelle quali si trova la via per poter rafforzare una metafisica così intesa: «occorre passare ad una visione dialettica…dell’essere, ad un integralismo in cui la trascendenza e l’immanenza si coimplicano senza implicitarsi in quanto appunto si articolano dentro l’unità dinamica dell’essere»14.

Note

1. M. T. Antonelli, L’atteggiamento mistico come consumazione di una metafisica  dell’essere, in Humanitas, n.10, 1952, p. 878

2. Ivi, p.880

3. Ivi, p.882

4. Ibidem

5. Ibidem

6. Ibidem

7. Ivi, p.883

8. Ivi, p. 134

9. Ivi, p. 140

10. Id., È possibile una metafisica?, in Il Giornale di Metafisica, nn. 4-6, 1976, p. 453

11. Ivi, p. 456

12. Ibidem

13. Ivi, p. 477

14. Ivi, p. 480

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