Lo sguardo di Barthes

Di: Giusy Randazzo
1 Luglio 2010

Roland Barthes pubblica nel 1980 La camera chiara. Note sulla fotografia. In questa “nota” studia il reale coinvolto nell’atto fotografico nella sua interezza, dall’operator, colui che fotografa, al fruitore –lo spectator-, allo spectrum ovvero il soggetto fotografato.

«una foto può essere l’oggetto di tre pratiche (o tre emozioni, o tre intenzioni): fare, subire, guardare». (p. 11)

Chiama spectrum ciò che è fotografato non soltanto per il suo rapporto etimologico con il termine spettacolo, ma anche perché è “il ritorno del morto”. Questo elemento, infatti, proprio della fotografia, che è il suo lato “necessariamente reale”, rappresenta un interfuit, un “ciò che è stato”. Nella fotografia, dunque, realtà e passato convivono. In tal senso la fotografia -realissima e in sé mortale- fa vivere ciò che è stato e non è più, immortalandolo. Ha in sé, dunque, una condizione strabica, folle, che è la condizione naturale, allucinatoria, iconica della fotografia: ciò che è stato non è qui; è qui ciò che non è più.

La fotografia, nella sua interezza, mi anima e si fa animare, eppure nello spectrum assume la morte in modi differenti. Barthes, infatti, ritiene che ci siano due possibilità per qualificare la foto: la foto differenziale, che descrive oggettualmente, rimandando a un’identità in cui consiste la differenza del soggetto rispetto ad altri; la foto essenziale che è “la scienza impossibile dell’essere unico”. Quest’ultima coglie del referente, dello spectrum, la sua verità: l’aria. L’aria è espressione della verità del soggetto fotografato. Nonostante non sia che un sentire che invade lo spectator, attraverso un dettaglio che apre una ferita -entrata principale di questa verità-, è un elemento che continua a essere legato all’evidenza, alla totalità del fotografato: mentre mi fa giungere alla verità del soggetto fotografato, facendomelo riconoscere, mi dice di più ovvero che il soggetto non può essere scomposto. Non soltanto non può essere colto per differenze, dunque, ma il tentativo di guardare in profondità la verità unica della sua essenza non mi fa scoprire niente di più, nient’altro che una foto che si sgrana.

Di fronte alla fotografia essenziale lo spectator avverte dunque come una ferita che rimane tale nella sua drammaticità, perché non può essere curata: la verità che ti mostra può essere guardata, ma non scrutata nella sua profondità. Rimane uno spettro. Questa emozione drammatica che, mentre mi trafigge, mi permette di guardare la verità, di sentire l’aria, non proviene però da quel comprendere la foto in modo razionale -dallo studium-, dall’interessamento, ma dal secondo elemento che infrange lo studium (cfr p. 28), che Barthes chiama punctum: qualcosa che mi trafigge, una puntura che mi ferisce.

È quell’elemento della fotografia che crea turbamento, che rapisce l’attenzione, che per altri potrebbe essere un dettaglio trascurato, ma che nel lettore –lo spectator– diventa via maestra per entrare in contatto con la propria emotività. La Fotografia del Giardino d’Inverno (il maiuscolo è di Barthes) è una spiegazione esemplare. La madre di Barthes muore, provocando un dolore lacerante nel figlio, il quale comincia a cercarla nelle foto di famiglia. Sfoglia gli album, osserva ogni piccola foto. Tutto sembra muto, però.

«Una sera di novembre, poco tempo dopo la morte di mia madre, mi misi a riordinare delle foto. Non speravo di “ritrovarla”, non mi aspettavo nulla da “certe fotografie d’una persona, guardando le quali ci par di ricordarla meno bene di quando ci accontentiamo di pensarla” (Proust). […] Secondo le foto, in certune riconoscevo una regione del suo volto, il tale rapporto del naso con la fronte, il movimento delle sue braccia, delle sue mani. Io la riconoscevo sempre e solo a pezzi, vale a dire che il suo essere mi sfuggiva e che, quindi, lei mi sfuggiva interamente. Non era lei, e tuttavia non era nessun altro. L’avrei riconosciuta fra migliaia di altre donne, e tuttavia non la “ritrovavo”. La riconoscevo differenzialmente, non essenzialmente”» (pp. 65-67).

Barthes osservava le foto una per una “cercando la verità del volto” che aveva amato (p. 69), fino a quando non si ritrovò tra le mani una fotografia della madre bambina.

«Era una fotografia molto vecchia. Cartonata, con gli angoli smangiucchiati, d’un color seppia smorto, essa mostrava solo due bambini in piedi, che facevano gruppo, all’estremità di un ponticello di legno in un Giardino d’Inverno col tetto a vetri. […]Osservai la bambina e finalmente ritrovai mia madre. […] la mia afflizione esigeva un’immagine giusta, un’immagine che fosse al tempo stesso giustizia e giustezza: giusto un’immagine, ma un’immagine giusta. Tale era per me la Fotografia del Giardino d’Inverno. […] Quella foto riuniva tutti i predicati possibili di cui era costituito l’essere di mia madre.[…] essa realizzava per me, utopisticamente, la scienza impossibile dell’essere unico”» (pp. 69-72).

Se non mi provoca nessun punctum, allora la fotografia è unaria, enfatica come possono essere certe foto di reportage o le foto pornografiche. Quelle che shockano. In questo caso è lo shock in cui consiste la perfomance del fotografo, che si può contraddistinguere per rarità, per prodezza, per la capacità di sfruttare gli inconvenienti tecnici, per la trovata, per quel principio di sfida -tra il fotografo da una parte e il possibile e l’interessante dall’altra- e per numen, altro segno distintivo della fotografia unaria. Il numen appartiene al fotografo non alla fotografia. È quella capacità di riprodurre un gesto colto nel “punto preciso in cui l’occhio non può fissarlo”. È altra cosa rispetto al kairos che è proprio della fotografia essenziale e non del fotografo: l’istante fermato che disvela la verità del soggetto, la sua aria, non soltanto il suo corpo ma il suo corpomente, la sua unità. L’istante –il kairos– conserva e non si perde perché fermato, perché divenuto ciò che è: segno eterno. Proprio per questo provoca turbamento: il soggetto è redivivo pur continuando a rimanere morto, è uno spettro.

Invito il lettore a non perdersi il testo di Barthes che, al di là delle intuizioni filosoficamente rilevanti relative alla fotografia, ha una particolarità: è prosa che si fa poesia, è scrittura che diventa immagine, è lettura che amplifica l’emozione. Non è difficile infatti scoprire le radici della sua origine nell’intimità del filosofo, nel suo dolore, che trasforma l’intero testo nel canto di un figlio alla madre.

Roland Barthes
La camera chiara. Nota sulla fotografia
(La chambre claire. Note sur la photographie, 1980)
Trad. di Renzo Guidieri
Einaudi, Torino 2003
«Piccola Biblioteca Einaudi, NS»
Pagine 130

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