N.10, aprile 2011 – Antropologia/Mafia
A che cosa serve la filosofia? A capire la mafia, ad esempio. Assieme alla sociologia, alla storia politico-criminale, alla teologia (come hanno dimostrato gli studi che Augusto Cavadi ha dedicato a quest’ultimo ambito), la filosofia -e in particolare l’antropologia filosofica- getta una luce vivida sulle radici profonde di ciò che chiamiamo crimine tra gli umani, compreso l’agire e l’essere dell’organizzazione che va sotto il nome di Cosa Nostra. Arcaismo, replicanza, asessualità, gelo emotivo costituiscono alcuni dei caratteri psicologici e antropologici che spiegano la durata del fenomeno mafioso, la sua capacità di adattarsi a contesti storici e politici molto diversi tra loro, dall’età giolittiana al lungo dominio democristiano, dal fascismo a Berlusconi. Non si tratta soltanto di danaro. Che i soldi non spieghino tutto è fondamentale se si vuole davvero tentare di capire Cosa Nostra. L’immensa ricchezza materiale e finanziaria accumulata dai singoli e dall’organizzazione è tale da non poter essere utilizzata e spesa nelle singole vite dei mafiosi, i cui capi -anche per ragioni di sicurezza- conducono spesso esistenze quasi monacali. In analogia con lo schema applicato da Max Weber al protestantesimo, l’impossibilità -e talvolta anche il disinteresse- a spendere la ricchezza accumulata dall’organizzazione creano un capitale che non viene investito soltanto in attività economiche dirette, nel riciclaggio che produce il falso sviluppo di molte regioni d’Italia. L’accumulazione alla quale Cosa Nostra tende è prima di tutto simbolica, è un immenso capitale di Autorità e di Potere da investire nella miriade di relazioni sociali, professionali e umane che formano la concreta vita della polis. È per questo che il fenomeno mafioso è così pervasivo, solido, difficile da estirpare, poiché crea un ordine gerarchico e collettivo che come tutte le forme di dominio profondo ha bisogno di mascherare la violenza estrema di cui è fatto con una serie di valori, regole e scambi dai quali ottenere legittimazione prima di tutto agli occhi degli stessi potenti, dei criminali, e poi di quanti entrano in contatto con l’organizzazione, a partire dalla serie di favori, privilegi e prevaricazioni che costituiscono il vero humus sul quale la mafia prospera e dal quale riceve consenso. È questo che bisogna prima di tutto intendere per “mentalità mafiosa” e che permette il radicamento ormai secolare di Cosa Nostra nel territorio, tanto profondo da far sì che -secondo recenti studi- circa cinquemila affiliati all’organizzazione godano del sostegno diretto o indiretto di un milione di siciliani (sui cinque che abitano l’Isola).
Lo sfondo di tutto questo -non va mai dimenticato- è la natura animale della nostra specie, la struttura predatoria di un primate la cui evoluzione culturale è inseparabile dalla permanenza del dato biologico. Questo non significa, è chiaro, che Cosa Nostra così come è nata nella storia nel tempo storico non finirà. Giovanni Falcone aveva ben motivo di esserne certo. E noi condividiamo tale certezza. Ma i tempi del tramonto di quella particolare forma di Potestas criminale che è la mafia vanno previsti non soltanto nei tempi brevi dell’ordine giudiziario ma anche in quelli più lunghi dell’ordine antropologico. In modo da non farsi illusioni ma anche da sapere che nulla è immobile nella vita umana e anche la pretesa mafiosa di cristallizzare i rapporti di dominio è destinata allo scacco.
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