Simbiosi, informazione, postumano (II parte)

Di: Giuseppe O. Longo
3 Dicembre 2010

(Continua dalla I parte)

La mappatura del genoma ci pone in una situazione in cui oggetto e soggetto si confondono. Anzi, se l’oggettivazione fosse, come si vorrebbe, completa, il soggetto rischierebbe di sparire del tutto, con conseguenze bizzarre e forse crudeli. Il soggetto, del tutto appiattito sull’oggetto, anzi divenuto puro oggetto, somiglierebbe a colui che in piena consapevolezza si vede precipitare in un burrone senza poter far nulla per impedirlo: per esempio potrebbe sapere in anticipo che sta per cadere preda di una malattia grave, senza poter fare nulla per evitarla. Come negli incubi dove non si riesce né a fuggire né a gridare aiuto. D’altra parte non sarebbe necessario evitare la malattia, visto che non ci sarebbe il corpo, cioè il luogo dove la malattia si potrebbe manifestare… E più sottilmente: divenuto soggetto oggettivato, potrei ricavare un quadro completo delle mie capacità fisiche e intellettuali, gettando in qualche misura un’occhiata al mio futuro; ma come emergerei ai miei occhi? Come ne sarebbe modificata la mia esperienza del Sé? Come ne sarebbe condizionato l’antico problema del libero arbitrio? Esisterebbe ancora il tempo, sede degli eventi (la malattia, il pensiero, la contemplazione, la corsa)? Quest’ultima domanda fa intravvedere il legame inscindibile tra corpo e tempo. Certo, conoscendo il mio genoma potrei modificare in meglio le mie caratteristiche, ma qui si apre un altro problema: se l’oggettivazione del Sé è completa, chi è l’ “io” che interviene sul “proprio” codice genetico per modificarlo? L’intervento non fa già parte dell’oggettivazione totale del soggetto, in un vertiginoso circolo autoreferenziale? Insomma, si ha la sensazione che la presenza del corpo consenta quel minimo di distacco tra oggetto e soggetto che sperimentiamo al di là di ogni dubbio e che, in quanto soggetti, ci rende titolari di numerosi possessi. Questi possessi si esprimono in locuzioni del tipo: “il mio corpo”, “il mio dolore”, “la mia mente” e “il mio genoma”. Se tutto fosse oggettivato, se tutto fosse squadernato davanti ai “nostri” occhi, si ripresenterebbe l’antico paradosso del sistema che sa tutto di sé. Questa conoscenza dev’essere contenuta in un organo particolare, che fa parte del sistema e di cui quindi il sistema deve saper tutto. Ciò richiede un ulteriore organo della conoscenza, e così via, all’infinito.

Comunque non facciamoci intimidire dalla natura congetturale di tutto ciò, e riprendiamo il problema del Sé in questa particolare prospettiva post-umana. Se tutto il Sé può essere codificato e passare da un supporto all’altro, se un essere umano può identificarsi col suo software o codice senza nessun collegamento necessario con il suo hardware di partenza, non c’è più identificazione tra il Sé e un corpo particolare. Il cordone ombelicale sarà tagliato e ciascuno potrà assumere liberamente uno o più corpi, nei quali replicare esattamente il codice che gli corrisponde. Si apre qui un problema vertiginoso: se l’informazione che costituisce il mio Sé viene trasferita su un supporto diverso, dove sto “io”? Non mi identifico con il supporto materiale d’origine e neppure con quello d’arrivo, che sono entrambi del tutto occasionali, ma non mi identifico neppure con il codice, che può essere riprodotto in un numero arbitrario di copie (ciascuna col suo supporto) con tutta la precisione che voglio. Non esistendo il codice in astratto, ma solo le sue varie possibili incarnazioni, si dissolve l’idea di “originale”: ogni originale è una copia e viceversa. (Vengono in mente le considerazioni di Walter Benjamin sul concetto di opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica.)

Allora, in questa prospettiva di corpo-mente codificato e incarnabile a piacere, dove si colloca il Sé? Dove sta la mia coscienza, alla quale in fondo sono affezionato? Se poi suppongo di riprodurre il codice in molti supporti, ciascuno di questi “cloni” si evolverà per conto proprio, in modo più o meno diverso dagli altri: il mio Sé si moltiplicherebbe come si moltiplica ad ogni istante l’universo in quelle versioni della meccanica quantistica che sono dette dei molti mondi… Ancora una volta: dove sta il mio Sé?

Per evitare i problemi di autoreferenzialità e di regresso all’infinito, potrei delegare a un terzo l’osservazione del mio corpo decodificato e ridotto a puro codice. Ora, se la decodifica fosse completa, non solo metterebbe in corrispondenza biunivoca l’attività neuronale con l’esperienza soggettiva, ma consentirebbe di trascurare del tutto quest’ultima: lo sperimentatore fornirebbe un impulso al mio cervello e saprebbe che cosa stessi provando senza neppure domandarmelo. Anche le mie decisioni sarebbero prese in un regime di libertà vigilata: osservando l’attività biochimica del mio encefalo, lo sperimentatore saprebbe con un piccolo anticipo che sto per decidere o pensare la tal cosa. La mia coscienza (ma avrebbe ancora senso parlare di coscienza?) arriverebbe sempre un po’ in ritardo e registrerebbe come libera scelta uno stato “oggettivo” anteriore.

E che ne sarebbe della mia storia personale? Delle mie esperienze passate? Se, come pare, esse sono rappresentate nei miei neuroni, sarebbero comprese nella codifica: ma come si configurerebbe l’atto di richiamare un’esperienza o un ricordo? Non sarebbe necessaria una dinamica della codifica? O una codifica gerarchica? E in questa gerarchia potrebbe esserci lo spazio per una distinzione tra oggetto e soggetto? Domande formidabili, che, bizzarramente, nascono da una semplice congettura, da un esperimento concettuale che forse non ha nulla a che fare con qualsiasi realtà e che forse è frutto di pura visionarietà.

Eppure…

I problemi sollevati dalla mappatura genomica non finiscono qui: da una parte, fornendoci il codice della vita, la mappatura pretende di dirci chi è davvero ciascuno di noi secondo una visione deterministica molto discutibile improntata a un perentorio riduzionismo informazionale che si arroga l’esclusiva della verità; dall’altra la possibilità di modificare il software, cioè di riprogrammare il genoma, con tecniche finalistiche (anche queste molto discutibili perché acontestuali e basate su una supposta linearità causale tra geni e tessuti e tra geni e caratteri) prelude a un profondo mutamento etico e cognitivo.

Osservo che la pretesa di fornire la vera descrizione di un individuo, qualunque sia il procedimento adottato, è alquanto velleitaria: intanto perché un individuo si trova all’incrocio o alla confluenza di molte (infinite) descrizioni possibili, a seconda del livello di osservazione adottato e a seconda delle priorità stabilite dall’osservatore e dei suoi interessi. Nessuna di queste descrizioni è esauriente (questa ineludibile pluralità descrittiva si esprime anche dicendo che l’individuo è un sistema complesso) ed è solo il loro insieme (aperto) che porta asintoticamente verso la descrizione dell’individuo. In secondo luogo, e ancora più importante, ogni individuo è un processo, cioè è mutevole nel tempo, quindi le descrizioni debbono avere carattere dinamico. Questa storicità dell’individuo s’intreccia con la sua immersione in un contesto o ambiente con il quale si trova in continua interazione coevolutiva: da qui, in ogni istante, un brulicare di alterità dinamiche potenziali che mette in questione il concetto di identità e la possibilità stessa della descrizione. Questo per ciò che riguarda l’osservatore-descrittore. Sul versante dell’individuo osservato, la storia e il contesto, interagendo con le potenzialità contenute nel patrimonio ereditario, attuano alcune possibilità (contingenze) e non altre a priori altrettanto probabili. (Ecco perché due gemelli omozigoti non sono mai del tutto isomorfi: le loro differenze scaturiscono dalle differenze, per quanto minime, tra le loro esperienze individuali.) Entra in crisi la nozione di (auto)biografia oggettiva: ciò che resta sono le storie, cioè le narrazioni situate, fatte da un punto di vista parziale, per esempio quello del soggetto. La prospettiva di una descrizione genomica completa segnerebbe comunque la fine del creazionismo teleologico, che assegna all’uomo un posto privilegiato tra gli animali; la fine della riproduzione sessuale e quindi di una fonte importante di diversità genetica (la clonazione informazionale renderebbe superfluo l’accoppiamento, con disappunto di molti); segnerebbe la fine di molte dispute filosofiche e psicologiche (sul libero arbitrio, sulla coscienza, sull’inconscio), fors’anche per l’estinzione dei filosofi e degli psicologi dopo un lungo periodo di cassintegrazione. Potrebbe segnare la fine del corpo: una volta trovato il genoma perfetto, che cosa ci guadagneremmo a incarnarlo in un corpo corruttibile? Anzi che cosa ci guadagnerebbe lui, il GGG (il Grande Genoma Generale) a incarnarsi? Che cosa ci guadagna il bibliomane dalla lettura effettiva dei suoi libri? Che cosa ci guadagnano i libri dalla lettura, o addirittura dalla scrittura, che ne possiamo fare? Tutto sembra regredire verso il regno dell’informazione-sempre-più-rarefatta, dove il GGG veglia su sé stesso nei secoli dei secoli. Andiamo davvero verso il postumano? E ci piace?

Bibliografia

Biuso A. G., La mente temporale. Corpo mondo artificio, Carocci, Roma, 2009.

Fukuyama F., L’uomo oltre l’uomo, Mondadori, Milano, 2002.

Longo G. O., Il nuovo golem: come il computer cambia la nostra cultura, Laterza, Roma-Bari, 1998.

Longo G. O., Homo technologicus, Meltemi, Roma, 2001 (2^ediz. 2005).

Longo G. O., Il simbionte: prove di umanità futura, Meltemi, Roma, 2003.

Marchesini R., Post-human, Bollati Boringhieri, Torino, 2002.

Negroponte N., Essere digitali, Sperling & Kupfer, Milano, 1995.

Waldrop M. M., Complessità, Instar Libri, Torino, 1995.

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